Dodi Battaglia: «Porto sul palcoscenico le mie 60 chitarre»

Il musicista racconta la sua vita in uno spettacolo teatrale

9 Novembre 2022 alle 08:05

Ha suonato e cantato per 50 anni in giro per il mondo con i Pooh. Ma anche oggi Dodi Battaglia non ne vuole sapere di stare da solo sul palco. Nel suo nuovo spettacolo teatrale “Nelle mie corde Canzoni & Sorrisi” (debutta a Milano il 9 novembre e toccherà altre città come Roma, Lecce, Montecatini, Varese, Bergamo e Alessandria), diretto da Fausto Brizzi, si farà accompagnare in scena dalle sue 60 chitarre. «È un recital in cui racconto la mia storia, musicale e umana, attraverso queste mie “compagne di viaggio”» spiega.

«Ogni chitarra rappresenta un periodo della mia vita: c’è anche quella con cui io, ragazzino incosciente, suonai “Foxy lady” prima che Jimi Hendrix salisse sul palco (era il 26 maggio 1968, primo concerto bolognese di Hendrix: Ivan & the Meteors, il complesso di Dodi, faceva da gruppo di supporto, ndr). C’è quella con cui ho rifatto “Piccola Katy” dando un po’ di svolta rock ai Pooh, o quella con cui sono andato a Sanremo nel 1990, quando vincemmo con “Uomini soli”».

Se potesse salvarne solo una?
«Domanda crudele (ride), ma forse la seconda che ho comprato. La presi nel 1973 in un negozio di Roma per 300 mila lire. Con lei ho fatto canzoni che hanno venduto milioni di dischi. Un rapporto qualità-prezzo eccezionale!».

Lei proviene da una famiglia di musicisti: si sente un predestinato?
«Mi considero uno che ha avuto la fortuna di fare di una passione il proprio mestiere. Il problema di noi musicisti è sempre quello: riuscirò a mantenere una famiglia solo con la musica? Non è scontato, e ringrazio il cielo ogni giorno».

Lei da bambino studiava fisarmonica. Com’è diventato uno dei più grandi chitarristi italiani?
«Ero bravissimo con la fisarmonica! Poi un giorno sentii un juke-box che suonava un brano dei The Shadows, “Atlantis”. In un attimo mi sono detto: “La mia vita è questa, ecco quello che voglio fare”. Sono una persona mite, ma se parto con un obiettivo non mi ferma nessuno: forse è scritto nel mio cognome, Battaglia. Da quel giorno non ho più toccato la fisarmonica. E dopo sei mesi di chitarra davo già lezioni agli amici».

Nel 1968, a 16 anni, la chiamarono i Pooh.
«Per noi bolognesi erano già il top del top. La cosa difficile fu mantenere il segreto per tutta l’estate, anche con i miei genitori!».

Qual è stato il momento più importante di questa carriera straordinaria?
«L’album “Parsifal” del 1973. I Pooh avevano successo, ma erano criticati, dicevano che facevamo canzonette. Ci dicemmo: “Ah, sì? Ora vi facciamo vedere noi!”. Ed è lì, in quel lungo assolo del brano “Parsifal”, che è nato il “chitarrismo” di Dodi Battaglia».

Ci si abitua al fatto che i Pooh non esistano più?
«Non c’è giorno in cui una parte del mio pensiero non sia rivolta a loro e al tempo che abbiamo passato insieme. Stefano (D’Orazio, morto due anni fa, ndr), poi, mi manca tanto. Ogni notte sogno che siamo tutti insieme in macchina, diretti verso il tour. I Pooh fanno parte del mio Dna».

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