The Doors e Jim Morrison, tutta la storia del mito

Dall'epocale debutto del 1967 ai concerti postumi

The Doors  Credit: © Getty
19 Aprile 2018 alle 12:15

Nel 1966 nasce il progetto The Doors, il cui nome è merito di Jim Morrison, a cui viene in mente 'Le Porte della Percezione', un trattato di Aldoux Huxley sull'uso della mescalina: la band è una faccenda esaltante, ma faticosa, fin dall'inizio. L'obbiettivo di Jim è chiaro: portare il lato oscuro dei liberi pensatori e delle tragedie greche di Sofocle all'interno di una musica giovanile - il rock - che, all'epoca, era ancora formata da popstar carine e sorridenti. E i Beatles sarebbero arrivati alla rivoluzione fatale di 'Sgt. Pepper's' solamente sei mesi dopo l'esordio su vinile dei Doors...

Con Sorrisi, una collezione imperdibile

Dal 20 aprile, in edicola con Tv Sorrisi e Canzoni una collezione dedicata ai Doors. Dodici uscite composte da: 6 album da studio, 4 Live e 2 DVD che saranno saranno tutti in DIGIPACK. Potre acquistare i cd singoli al prezzo di €9,99 (prezzo rivista esclusa) e i cd doppi e i DVD a €12,99 (prezzo rivista esclusa). In regalo con la prima uscita il cofanetto.

Le uscite:
20 aprile THE DOORS REMASTERED
27 aprile STRANGE DAYS 50TH ANNIVERSARY EXPANDED EDITION
4 maggio WAITING FOR THE SUN EXPANDED
11 maggio THE SOFT PARADE EXPANDED
18 maggio MORRISON HOTEL EXPANDED
25 maggio L.A. WOMAN 40TH ANNIVERSARY
1° giugno LIVE AT THE MATRIX 1967
8 giugno LIVE AT THE BOWL’ 68
15 giugno LIVE IN PITTSBURGH 1970
22 giugno LIVE IN VANCOUVER 1970
29 giugno DVD THE DOORS CLASSIC ALBUMS
6 luglio DVD THE DOORS COLLECTION

The Doors: la storia

Narra la leggenda che James Douglas Morrison (per tutti Jim) e Raymond Daniel Manzarek Jr. (Ray) si siano incontrati per la prima volta sull'assolata spiaggia californiana di Venice Beach in un giorno imprecisato della primavera 1965. Morrison, già in quel 1965, è istinto brado senza compromessi: uno capace di forgiare melodie vocali esattamente come un poeta crea versi. Uno che se la prende comoda, Jim, come se la natia Florida (venne alla luce a Melbourne l'8 dicembre 1943) non l'avesse mai del tutto abbandonato. Manzarek, invece, sembra decisamente un tizio più rigido e scafato: impegnativi studi classici alle spalle, enorme destrezza al piano, una breve esperienza nel music business con i Rick & The Ravens. E poi Ray, da buon ex abitante di Chicago, è uno pragmatico: suona due strumenti a tempo (le tastiere e il basso utilizzando l'escamotage di un piccolo Fender Rhodes Piano Bass posto sulla parte alta del suo Vox Continental) e ha un gran fiuto per gli affari. Morrison vive l'attimo e brucerebbe per esso; Manzarek ci vede lungo e sa pianificare. Assieme ne combineranno delle belle.

A due così non possono ovviamente associarsi dei banali comprimari. Tant’è che il losangelino John Densmore è un batterista jazz fatto e finito, prestato magari per sbaglio al mondo del rock. Il suo modo, torrido e non convenzionale, di suonare i tamburi si sente eccome. E poi non ha vizi particolari e resterà per sempre la coscienza critica del gruppo (molto interessante, da questo punto di vista, la sua autobiografia 'Riders on the storm' uscita nel 1990). Alla chitarra, invece, approda il più californiano del lotto: Robbie Krieger è psichedelia allo stato puro ancor prima della lunga estate dell'amore del '67. Si lancia sovente in assoli slabbrati (tramite la tecnica blues del bottleneck/collo di bottiglia strisciato lungo le corde) e tremendamente visionari tramite un gusto tutto personale di rileggere l'amato flamenco. Krieger - che avrà l'onore di scrivere una certa 'Light my fire' - resta tuttora uno dei chitarristi più fantasiosi e sottovalutati di ogni epoca.

Morrison, comunque, possiede il physique du role. Si presenta in scena come un adone magnetico e perciò l'Elektra Records - una delle etichette più calde d'America - decide di puntare su quei quattro dopo aver visto la band in azione nei club più esclusivi di Los Angeles tra cui il London Fog e il Whiskey A Go-Go. Siamo negli ultimi mesi del 1966 e in studio col produttore Paul A. Rothchild (il "quinto Doors" scomparso a metà anni '90) succede l'impensabile: 'The Doors', terminato in appena due settimane ed uscito nel gennaio del 1967, è il più bel debutto rock di ogni epoca assieme (forse) a 'Are You Experienced' della Jimi Hendrix Experience e al primo dei Velvet Underground, ovvero altri due capolavori usciti curiosamente sempre quell'anno. Se ci aggiungiamo anche i Black Sabbath e i Joy Division rimane difficile trovare di meglio in tale categoria.

Da "The Doors" a "**The Soft Parade"**

Dentro 'The Doors' convive un po’ di tutto in un flusso creativo sublimato da una vivace soluzione di continuità. A livello di lascito storico potrebbe già bastare così, ma ormai la paranoia è tracimata dal vaso e i Doors, nonostante il grande successo commerciale dell'album omonimo, alzano notevolmente il tiro. In 'Strange Days' (uscito nel settembre '67) dipingono tutta la follia alienante di un continente americano che, in quel periodo, stava già andando a impantanarsi nelle tensioni sociali interne e nel dramma globale del Vietnam. Il secondo album del gruppo (anche per l'uso innovativo di certi sintetizzatori ante-litteram ed una gemma poco citata come 'Horse latitude') altro non è che la versione adulta di 'The Doors' rivelandosi, al tirare delle somme, il lavoro più artistico della loro intera discografia. 'When the music's over' intona Morrison nell'ultima, lunghissima traccia di quasi undici minuti. Solo che la musica è tutt'altro che finita.

Non può durare a lungo, naturalmente. Lo sanno tutti, la band in primis, ma tant'è si va avanti. L'Elektra, nonostante l'esplosione del rock psichedelico di LoveGrateful Dead e Jefferson Airplane e consapevole che la musica in quel 1968 sia ormai "altro", continua a vedere nei Doors una gallina dalle uova d'oro sotto forma di singoli da hit parade, eredi diretti di 'Light my fire' o 'Love me two times'. I due album successivi diventano quindi esperimenti controversi con 'Waiting For The Sun' (1968) ancora dannatamente buono nelle sue visioni anti-militariste ('The unknown soldier' e 'Five to one') ed il susseguente 'The Soft Parade' (1969) elegantemente incerto tra slanci poetici (la titletrack) e pezzi pop ('Touch me') troppo laccati in fase d'arrangiamento. E poi c’è un Morrison sempre più strafatto, ubriaco e ingestibile che il fatidico primo marzo del 1969 si rende protagonista del celebre arresto di Miami in seguito ad un concerto andato totalmente fuori controllo. Uno shock mediatico dove Jim abdica simbolicamente dal suo ruolo di "uomo copertina" per inseguire visioni poetiche sempre più eloquenti nel suo indecifrabile mondo privato.

La morte di Morrison

Il disco del 1970, l'iconico 'Morrison Hotel', difatti è composto per la maggior parte da musica schietta piuttosto che da performance elitarie. Sembra di più un'ode alle misconosciute "bar band", quei gruppi da birreria che, da qui in avanti, si esibiranno milioni di volte jammando sulle note coinvolgenti di 'Roadhouse blues'. L'album funziona (spettacolare anche 'Peace frog'), ma il gruppo resta una cosa mentre il suo frontman un'altra. Una convivenza (forzata?) che deflagra una volta per tutte nel loro altro capolavoro 'L.A. Woman', giunto nei negozi nell'aprile del 1971 e testamento definitivo di una band mai più replicabile nonostante qualche bel tentativo d'imitazione alla The Cult. Morrison, a registrazioni ultimate e dopo aver firmato canzoni indimenticabili come la titletrack e 'Riders on the storm', scappa dagli States, si trasferisce in Francia "in cerca di ispirazione" e muore nell'affascinante quartiere parigino del Marais nella notte tra il 2 e 3 luglio dello stesso anno. La sera prima era andato al cinema a vedere un film con Robert Mitchum. Un western inquietante intitolato 'Notte senza fine'. 

Jim, nel suo esilio europeo, sta ancora inseguendo il vento impetuoso della poesia simbolista degli amati Baudelaire e Rimbaud, ma qualcosa - a livello di decadenza oppiacea - va decisamente storto. Accanto a lui, nella vasca da bagno dove giace esamine, c'è la compagna di sempre Pamela Courson che morirà a sua volta nel 1974 portandosi nella tomba una vicenda zeppa di misteri e dietrologie (la bara di Jim troppo corta rispetto alla sua altezza e sepolta frettolosamente al cimitero di Père-Lachaise...) che vibra di mito e incessanti pellegrinaggi pure nel 2018. I Doors, poco saggiamente, andranno avanti per altri due dischi con Manzarek alla voce, ma le vendite crollano e non è davvero cosa. Nel 1978 ci riproveranno un'ultima volta musicando le poesie del loro amico scomparso nel bistrattato 'An American Prayer', ma i fan stavolta comprano a testa bassa. Ancora assetati di quella voce. 

Il mito non si spegne

Fine? Assolutamente no. Le biografie dedicate a Re Lucertola (il soprannome di Jim), uscite a raffica negli anni '80, e i relativi Greatest Hits portano nuovi appasionati al capezzale del gruppo di Los Angeles esattamente come fa 'The Doors', il contestato film di Oliver Stone (ma il regista americano ha mai diretto pellicole facili?) arrivato sui grandi schermi nel 1991 con un Val Kilmer/Morrison niente meno che memorabile.

In seguito escono le ristampe postume di alcuni concerti storici (tra cui gli intriganti 'Live At The Matrix 1967' e 'Live in Vancouver') mentre nel 2013 se ne va - stroncato da un tumore - anche il povero Manzarek lasciando quindi nelle mani di Densmore (il primo, fin dagli anni '90, ad evitare ogni tentativo di revival) e Krieger il peso di una eredità di cui farebbero volentieri a meno. Loro d'altronde erano solo amici-colleghi di "Jimbo". il temerario Morrison, invece, obbedì alla trovata poetica del suo idolo Blake e andò nettamente oltre. Senza accorgersi che l'oltre sarebbe stato anche eterno. E senza ritorno.

Seguici