Duran Duran, 40 anni da… star

Mentre esce il nuovo disco “Future past”, Simon e John ricordano gli inizi di carriera

29 Ottobre 2021 alle 09:09

Un tè al latte per Simon Le Bon, un caffè per John Taylor: ecco due signori del rock che si godono la tranquillità di uno splendido hotel nella campagna veronese. Poi arriva Sorrisi, però, che si siede al tavolino con loro per chiacchierare dei Duran Duran, del loro nuovo album “Future past”, e allora bisogna far ripartire la musica. Anche quella di un juke-box splendido, ma silenzioso, che ci osserva da un angolo di questo bar. Accendiamolo almeno nella nostra fantasia…

Che canzone potremmo mettere su?
John Taylor: «“Good times” degli Chic».
Simon Le Bon: «Io, invece, direi “A horse with no name” degli America».
John: «Ah!».
Simon: «Hai presente? “I've been through the desert on a horse with no name”… M’è venuta in mente così, al momento. E comunque è il primo disco che ho comprato. Se non vi va, allora scelgo “Pretty vacant” dei Sex Pistols».
John: «Ecco, Io volevo dire anche “Anarchy in the U.K.” dei Sex Pistols, ma tengo la tua!».
Simon: «Questa è una domanda del genere “Quale canzone sceglieresti per far capire agli alieni chi sei stato?”. È sempre difficile rispondere… Però io ho detto ben due canzoni!».
John: «E io altre due!».
Simon: «Allora direi c'è già materiale in abbondanza: possiamo andarcene?».

No, no, anche perché mi diverte il fatto che abbiate citato i Sex Pistols. Non siete stati voi a spazzare via i Sex Pistols e il punk negli Anni 80?
Simon: «No! Non ci sentivamo “cancellatori”, ma dei continuatori».
John: «Vero! Avevamo energia punk e idee punk, e senza il punk non avremmo mai fatto musica. Abbiamo preso qualcosa dalla disco music e dalla musica elettronica, certo, ma ci basavamo su un’etica punk».
Simon: «Un’etica punk… Mi ricordo di una volta, agli inizi, che eravamo in taxi e ti ho chiesto: “John, ma noi abbiamo una “street credibility”, una credibilità da strada?”, e tu hai detto: “Certo! Come il profumo Chanel N° 19”. Ti confesso che subito dopo mi sono informato su cosa fosse quel profumo così raffinato».
John: «Ma è successo davvero?».
Simon: «Sì, sì! Guardi, ha detto proprio così: lui era Chanel N° 19. e io ero Chanel N° 5».

Del tempo ne è passato, ma mi pare che non sia calata l'intensità di come scherzate…
Simon: «Ho passato più tempo della mia vita con John, Nick e Roger, che con chiunque altro su questo pianeta, salvo forse mia moglie… Ma comunque John ho conosciuto te prima di lei!».

Quando vi siete incontrati per la prima volta, che cosa avete pensato l'uno dell'altro?
John: «Ho pensato che fosse molto “cool”, anche se all'epoca non avrei usato quella parola… Era così sofisticato… Sa, lui andava all'università, mentre io avevo fatto solo un anno all'Art College, e poi aveva un certo portamento, studiava recitazione… Abbiamo subito parlato di musica, dei Simple Minds credo, e ci siamo trovati subito d'accordo, pronti a partire insieme».
Simon: «Io ho pensato che John fosse un tipo motivato, molto motivato, che avesse un'enorme ambizione, ben più grande della mia… Poi ho pensato che gli avrei fatto togliere gli occhiali, perché era uno dei più bei ragazzi che io avessi mai visto»
John: «È vero, in quel periodo portavo ancora gli occhiali»

“Future past” doveva uscire nell’estate del 2020, ma la pandemia ha fermato i lavori. Quando lo avete ripreso, cos’avete cambiato?
John: «Nel marzo 2020 eravamo ai ritocchi finali: mollarlo per nove mesi ha generato qualcosa di straordinario. Quando ci siamo ritrovati eravamo così felici di esserci tutti, che è stato bello rivedere ogni cosa».
Simon: «Ha presente una battaglia a cuscinate? Quando i cuscini “esplodono”, la stanza è piena di piume, e nel 2020 la nostra situazione era così: cercavamo di acchiappare delle piume per riempire di nuovo un cuscino, cioè l’album. Al ritorno, le piume erano posate a terra come un tappeto, e quindi per noi è stato molto più facile prendere quelle che ci servivano».
John: «È uno dei dischi più personali che abbiamo fatto. I testi sono come l’esito di un’operazione “a cuore aperto” sulle nostre sensazioni più intime, sul senso che diamo alle relazioni».
Simon: «Se “Future past” ha un tema, penso che sia qualcosa che ho imparato diventando vecchio: la vita non è perfetta, e la vita di relazione lo è ancora meno. Ma è tutto ciò che abbiamo e dobbiamo godercelo. È il mondo del post-coronavirus: non torneremo mai al “prima”, quindi godiamoci questa vita».

Metto insieme un po' di cose: state insieme da 40 anni, e in 40 anni siete così cresciuti, come artisti e come persone, da raggiungere quello che voi ritenete sia il vostro album più personale… Allora vi chiedo: 40 anni fa, quando eravate all'apice del successo, dell'energia, della voglia di fare, che cosa vi mancava?
Simon: «Lei la metti giù come se ci fosse qualcosa che mancava, ma penso che sia il modo sbagliato di guardare alla questione. Il fatto che è abbiamo dovuto attraversare tutte le situazioni di questi 40 anni per arrivare a questo. La nostra arte è un riflesso delle nostre vite, e diventa al tempo stesso la nostra vita. È il riflesso delle persone che siamo. Quando abbiamo cominciato eravamo preoccupati di altre cose».
John: «E poi anche i nostri primi album erano molto personali».
Simon: «Sì, ma erano anche naive, no?».
John: «No, è che vivevamo la vita in modo diverso. Per dire: non hai una famiglia, sperimenti ogni cosa che ci sia al mondo, e dalla “storia” di una notte tiri fuori un pezzo come “Save a prayer”. Non è che sia meno personale per il fatto di essere stato scritto dopo una notte così: rispecchia la partita che stai giocando a 20 anni».

Qual era l’emozione più forte che vivevate in quei giorni?
Simon: «Ieri come oggi è l'emozione di andare in scena. Sei “nudo” di fronte al pubblico, e il pubblico è “nudo” di fronte a te… Non c’è nulla tra te e la gente, sai che tutto potrebbe andare malissimo e potresti schiantarti… Ma sai anche che se cogli il momento e ti aggrappi al legame tra il pubblico e la band, puoi costruire qualcosa di speciale: un “anello di energia”».
John: «Quel successo straordinario che abbiamo avuto per un paio d'anni, a un livello che forse potevamo solo sognare, è qualcosa di molto difficile a cui attaccarsi. La gente vuole ogni tuo respiro, e tu devi essere molto fermo nel dire “Signori, adesso voglio fermarmi un attimo e non voglio fare questo o quello”. E quando sei in una band le cose si complicano ancora di più, perché, per dire, se tu senti il bisogno di un break mentre gli altri dicono “No, va tutto bene, siamo grandi, dai!” e vanno avanti, non puoi che aggrapparti al “cavallo”, anche se sai che non hai i piedi nelle staffe. Oggi, invece, le cose sono cambiate, perché quando mi preoccupo di qualcosa, so che Simon, Roger e Nick sono coinvolti esattamente come me, che siamo come una staffetta, e allora mi viene in mente unaltro pensiero: “Noi, insieme, sappiamo come arrivare dov'è necessario”».

Siete una band molto coesa, certo, ma una cosa devo chiedergliela, John: com’è stato vivere 40 anni con questo magnete che è Simon?
Simon: «Sì, John, sei mai stato geloso di Simon? Ti ha mai fatto sentire insicuro?».

È esattamente quello che vorrei sapere.
John: «Simon è un grande professionista e bisogna vedere oltre la sua apparenza. Col tempo l’ho apprezzato sempre di più. Quando a metà Anni 80 Andy Taylor e Roger Taylor lasciarono la band, all’improvviso, Simon, io e Nick Rhodes dovemmo fare in tre quel che prima si faceva in cinque: solo lì abbiamo veramente capito ciò che ciascuno di noi poteva dare agli altri. Non avevamo neanche tempo di fare amicizia per davvero».

Simon, qual è la lezione più importante che ha imparato in 40 anni di palcoscenico? Per dire, come gestisce una audience che non crea con lei l'anello di energia che evocava prima?
Simon: «La risposta è la stessa per entrambe le domande. Prima di salire sul palco dico sempre a me stesso e alla band una cosa: “Facciamo lavorare le canzoni”. Abbiamo messo così tanta energia nella creazione del nostro repertorio (e sono pezzi davvero buoni!), che sarebbe stupido cercare di affidarsi a una qualche isterica energia per “accendere” il pubblico. Usiamo il potere della musica, perché è il nostro strumento più grande».

John, quando è sul palco e sente che qualcosa non va, chi guarda?
John: «Sicuramente Simon. Parte di quel che facciamo, infatti, è anche “caricarci” a vicenda. Io posso guardare Nick e Roger, possiamo scambiarmi uno sguardo, un cenno, ma Simon lavora veramente tantissimo on stage e sicuramente c'è qualcosa tra noi»
Simon: «Io so perfettamente come ti senti tu e tu sai come mi sento io».
John: «Sappiamo entrambi che la professione richiede che tu “ci sia”. Sai, quando Ian McKellen in teatro fa “Macbeth” o un “Re Lear” per la millesima volta, non è che dice “Oh, no, questa sera proprio non me la sento”: lui va dritto come un treno! Bisogna sempre esibirsi come se fosse la prima volta».
Simon: «È proprio così!».

Raccontatemi qualcosa del vostro primo concerto insieme: 16 luglio 1980, mi pare…
John: «È stato al Rum Runner, il club di Birmingham (demolito nel 1987, ndr) dove lavoravamo ed era il nostro palcoscenico».
Simon: «Ci eravamo già esibiti tutti, facendo cose diverse, musica o teatro, ma al Rum Runner siamo stati insieme per la prima volta. Ero terrorizzato. Ero così nervoso che il lato sinistro del mio corpo non faceva altro che tremare. Se qualcuno avesse registrato quello show, mi sentirebbe cantare tremolante il primo pezzo che ho fatto coi Duran Duran: “I feel love” di Donna Summer… Andando avanti, poi, ho imparato che non era la paura, era adrelina, e infatti mi ripeto sempre che sono la tua mente e il tuo corpo che ti stanno preparando a fare qualcosa di straordinario, e tu farai di sicuro qualcosa di straordinario!».

Vista la sintonia, vorreste farvi l’ultima domanda da soli?
John: «No, dai…».
Simon: «Io ce l’ho! John, qual è la tua canzone preferita in “Future past”?».
John: «Quando faccio un disco adoro “scoprire” l’ultima traccia, che in questo caso hai scelto tu: “Falling”».
Simon: «Dopo “Falling” non si poteva aggiungere altro. È come quando finisce un racconto: ti ritrovi con il cattivo che è morto e la bella ragazza che guarda il deserto… Ma lo scrittore poi aggiunge che in cielo le nuvole iniziano a formare dei disegni che alla ragazza ricordano qualcosa… E tu senti che nella tua testa già comincia un’altra storia. “Falling” dà questa sensazione: c’è già un album che aspetta di nascere».

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