È ora che sappiate chi è il vero Achille Lauro

L’artista pubblica 13 canzoni in cui si racconta senza filtri, dall’infanzia in periferia a Roma fino al successo

Achille Lauro  Credit: © Leandro Manuel Emede
22 Aprile 2021 alle 08:54

Era il 2014: Achille Lauro (all’anagrafe Lauro De Marinis) in “Scelgo le stelle” diceva: «Mi guardano soltanto da fuori, chi ti guarda sa un quarto di quello che passi...». Era ben lontano dal successo e dai Festival di Sanremo, ma anticipava quello che sarebbe accaduto: in tanti guardandolo si fermano solo alla superficie.

Non aveva invece previsto che molti avrebbero abbracciato il suo modo di essere. Sotto alle tute in lycra, agli abiti sartoriali e alle balze di seta bianca, dietro alle sue mille trasformazioni c’è lui, Lauro, un ragazzo timido cresciuto a Conca d’Oro, una zona popolare di Roma. Oggi ha pubblicato un album che porta il suo vero nome, dove in ogni parola e nota dei 13 brani racconta chi è veramente.

Lei dice che questo è il suo ultimo album. È vero?
«Sì, ma solo in parte. Non voglio pubblicare più niente per un po’. Ho bisogno che questo non sia solo uno tra i tanti progetti della mia carriera, ma un album definitivo. Non sarà l’ultimo ma sarà la fine di un lungo ciclo».

In copertina c’è il gioco dell’impiccato che ha come soluzione il suo nome. Perché?
«È un mio quadro su tela: mi piace anche dipingere! L’impiccato è un gioco che in qualche modo ha a che fare con la vita reale perché chiede di esplorare tutte le possibilità, di trovare una soluzione sensata senza sbagliare troppo. Lo fanno tutti i bambini».

Per questo motivo sul suo profilo Instagram ha rimosso tutte le foto, ricominciando con un video di lei da piccolo?
«La mia vita è stata stravolta totalmente, adesso ho 30 anni ma alla fine torno sempre lì, a quando ne avevo meno di 10. Erano i tempi del catechismo, di mia mamma che mi chiedeva di sorridere anche se non avevo nessuna voglia di farlo. Non sono mai stato un figlio molto spensierato».

Forse c’entrava anche il contesto: ha definito spesso il suo quartiere una fortezza e una prigione.
«Lo confermo, senza che sia un giudizio negativo. Sono cresciuto in un posto con tanta povertà. La sfortuna più grande però non era quella: era l’essere vicino al quartiere Trieste, pieno invece di ricchezza. Sono due zone divise solo da un ponte che attraversa il fiume Aniene: averlo davanti agli occhi rendeva ogni cosa più difficile. Dopo tutti questi anni posso dire che la periferia mi ha dato molto più di quello che mi ha tolto».

Ma è stato vivere lì a renderla, come lei stesso si definisce, un tipo malinconico?
«No, penso che Roma sia in generale un posto immenso che alla fine, per i motivi più disparati, ti fa sentire molto solo. Di quel senso di abbandono che per certi versi ha connotato la mia vita, ho cercato di farne qualcosa di buono per me e per gli altri».

Alla fine chi l’ha salvata da quella solitudine?
«Prima la scrittura, poi la musica».

Qualcuno dice invece che siano i soldi a fare la felicità.
«No, proprio no. Nel 2011 in “Il giorno del ringraziamento”, tra le primissime canzoni che ho scritto, dicevo ironicamente: “Certo che voglio essere milionario”, citando il quiz di Gerry Scotti. Mentre nel nuovo brano “Lauro”, che si intitola come l’album, dico il contrario: “Ed ora i milioni, Gerry, tienili per te”. Ho capito con il tempo che i soldi se non diventano mattoni, nel senso di progetti, sono solo un’illusione, numeri. Sono una calamita per chi se ne vuole approfittare. Ho imparato molto presto a difendermi e a investire quello che ho pensando al futuro».

Però adesso mi faccia tornare un attimo al recente passato. L’ultimo Sanremo.
«È stato bello».

Sì, lo è stato. Ma sa qual è la cosa che mi ha colpito di più di tutto? La grande autonomia che le ha lasciato Amadeus.
«Per questo gli sarò per sempre riconoscente. Non è una persona che ha bisogno dei miei elogi, ma ha fatto, insieme con Fiorello, una cosa rivoluzionaria. Ha ritagliato tanti spazi di assoluta libertà nel Festival, che è lo spettacolo pop per eccellenza. Non solo per me, tutti i cantanti in gara possono confermarglielo. Non è così scontato come sembra».

A proposito di libertà. In “Barrilete cosmico” c’è un chiaro omaggio a Diego Armando Maradona, spirito libero per eccellenza.
«Sì, è proprio il modo in cui veniva chiamato dai commentatori sportivi per sottolineare la sua imprevedibilità (“barrilete” in spagnolo significa aquilone, ndr). Sono da sempre ossessionato dai geni sregolati come lui. In “Rolls Royce”, che è stata tanto ingiustamente travisata, parlo dei molti miti della mia vita, con ironia e stima».

Nel suo ultimo singolo parla invece di “Marilù”: chi è?
«È una ragazza che sta per diventare madre, ma siamo tutti noi, anch’io sono un po’ Marilù. Canto del diventare grandi in un mondo che ci considera adulti ma anche eterni bambini. È una storia di crescita nella quale do una sola risposta ai grandi dubbi sul senso della vita. Anzi, faccio una mia personale considerazione».

Quale?
«Cos’è la vita se non imparare a vivere la vita?».

Prima di salutarci, parliamo ancora un po’. Mi racconta del desiderio di tornare al più presto da Milano, dove lavora, a Roma. Nelle interviste lo dice spesso, anzi sempre: la sua vacanza è rimettere i piedi nel posto dov’è cresciuto. Nella mia testa riecheggiano le parole di una sua canzone contenuta nell’album, che rievocano un ricordo di gioventù e l’andare finalmente a casa. Canta: «Mamma non mi riconosce più ma poi mi dice “Lauro, sei sempre tu”. Sono mesi che non torni qui da me». E lui le risponde: «A ma’, stai tranquilla che stasera sto con te».

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