La band salentina abbonata al numero 1 delle classifiche torna con "Don’t worry". Ma agli inizi i quattro furono scambiati per ladri d’auto!

È una della band più acclamate, richieste, ascoltate e ballate degli ultimi anni. Hanno collaborato e suonato un po' con tutti. Sono i BoomDaBash che tradotto sta per “esplodi il colpo”, sono un gruppo reggae salentino sulla scena musicale dagli inizi degli anni Duemila, ci sono entrati da indipendenti e lo sono, orgogliosamente, rimasti, collezionando nel frattempo ben 20 dischi di platino.
L'11 dicembre esce “Don't worry - Il best of (2005-2020)”, un album che ripercorre la carriera della band e racchiude tanti successi a cominciare da “Non ti dico no” con Loredana Bertè, i tormentoni estivi “Mambo salentino” e “Karaoke” con Alessandra Amoroso, il brano di Sanremo 2019 “Per un milione”, più vari inediti tra cui appunto la ballad “Don't worry” uscita a metà novembre. Ma ecco, uno per uno, chi sono i quattro BoomDaBash.
Angelo Cisternino (Blazon)
Prima del 2005 cosa facevi?
«Il perito meccanico, ho lavorato per 20 anni in una multinazionale dove si fanno motori per aerei».
Chi erano i tuoi idoli musicali?
«Bob Marley, ovviamente, ma ho un amore spassionato anche per i figli, Damian e Stephen Marley. In ambiente reggae hanno quel tocco in più. Spero in una collaborazione con Damian, noi abbiamo aperto diversi suoi concerti, a Milano e Roma».
Come hai iniziato a fare musica?
«Con altri amici avevamo un impiantone giamaicano fatto in casa, facevamo le feste in spiaggia, eravamo un collettivo di deejay che faceva reggae, c'era molto fermento in Salento negli anni Duemila. Io arrivavo dall'hip hop, quando i miei andavano in balera mi spostavo e andavo a ballare sotto il deejay, mi piaceva guardarlo».
Come sono nati i BoomDaBash?
«Il primo a entrare nel gruppo è stato Payà, aveva 16 anni e cominciava a dire qualche parola al microfono. Veniva in scooter da Trepuzzi a Mesagne, ci trovavamo a casa mia in campagna, avevamo allestito uno studio e mettevamo giù le prime strofe e le prime rime con un computer e un microfono».
Poi è arrivato Biggie.
«Anche lui abitava a Mesagne, in un paese piccolo chi fa musica si conosce. Lui aveva la cresta da punk, io facevo hip hop e giravo con dei pantaloni larghissimi. Il primo pezzo, nel 2004, lo facemmo su una base strumentale di Damian Marley, si chiamava “Ghetto children”, parlava di ragazzi di periferia, Biggie cantava in inglese e Payà rappava in salentino, da noi si dice “mpunnava”. Poi Biggie andò a studiare a Roma e conobbe Mr. Ketra che faceva rap e hip hop».
Tu all'interno del gruppo sei...
«Il produttore esecutivo e musicale, non canto, mi occupo delle basi, sono un po' il “collante”. La musica è fatta anche di tempi, bisogna concretizzare le idee che ognuno ha in testa. Noi siamo un realtà autoprodotta e indipendente, la nostra etichetta si chiama Soulmatical, l'abbiamo creata con il primo disco perché nessuno si interessava a noi. Siamo ancora indipendenti e felici».
Il primo disco?
«L'abbiamo registrato due volte, era il 2006, conteneva 12 brani. Lo avevamo chiamato “Uno”, perché era il primo disco ed eravamo sicuri che saremmo andati oltre. Una notte i ladri entrarono nella mia casa di campagna e ci rubarono tutto, computer, microfono, anche i divani. Ci mettemmo a lavorare, ricomprammo tutto e l'abbiamo inciso di nuovo».
Il momento più significativo della vostra carriera?
«L'Mtv Days a Torino nel 2011, partecipavamo nella sezione New Generation, in Piazza Castello con 100 mila persone e noi, quattro ragazzi dal Salento senza casa discografica, cantavamo con artisti affermati. Lì abbiamo realizzato un sogno, abbiamo capito che forse potevamo fare qualcosa, il nostro non era più un hobby, ma poteva essere un lavoro».
Come mai un disco sugli ultimi 15 anni?
«La nostra idea era di fare il punto della situazione dal 2005 a oggi, fare ascoltare i nostri brani alla gente e poi fare un disco nuovo. Comunque nell'album ci sono anche dei pezzi inediti oltre a “Don't Worry” duettiamo con un grande amico napoletano, Franco Ricciardi».
Quando non sei con la band cosa fai?
«Il papà di Marco, ha 6 anni, e il marito. Adoro i motori e la meccanica, faccio rally in auto, sono un harleysta. E faccio l'olio dagli ulivi della casa di campagna».
Paolo Pagano (Payà)
Prima del 2005 dov'eri?
«Facevamo queste feste reggae in Salento, spesso io cantavo, avevo iniziato con i nonni che facevano taranta e pizzica, ma volevo fare il reggae. C'erano questi 45 giri con il pezzo reggae da un lato, li giravi e c'era la parte strumentale, ci si cantava sopra, allora non c'erano tutte le possibilità di oggi. Lavoravo per comprarmi i dischi».
Che lavoro facevi?
«Ho fatto il cameriere e tanti altri lavori, ma il peggiore è stato in una fabbrica di pezzi meccanici, tornavo a casa con le braccia tagliate».
Come hai iniziato con la musica?
«Da bambino ero stonato, non pensavo che avrei potuto fare questo mestiere. Non ero quel bambino che gli adulti mettevano là e gli dicevano: “Canta che sei bravo!”. Nel mio paese abitava Nandu Papu dei Sud Sound System, a volte provavano i loro pezzi e con altri ragazzi andavo a spiarli, volevo imparare, all'inizio Nandu pensò che volevamo rubargli la macchina, poi mi insegnò quelle piccole tecniche che mi sono servite».
Cosa porti nella band?
«Sono la parte più “cattiva”, faccio ballare con le mie parti in salentino, il reggae è basato anche sul messaggio e noi facciamo canzoni che hanno sempre un messaggio dietro».
Quale messaggio?
«Racconto un episodio: un po' di anni fa girammo il video di “Un attimo” nel carcere di Lecce, abbiamo cantato in mezzo ai carcerati. Anche quello è un messaggio: la musica salva con le parole, anziché distruggere. Qui in Salento ci sono state battaglie per l'ambiente, per la no tap, per l'Ilva di Taranto e noi c'eravamo».
Il Salento quanto incide sulle vostre canzoni?
«Molto. Ma un pezzo se lo fai in salentino, lo devi fare bene. All'inizio ci dicevano: “Dove andate con l'inglese e con il dialetto!”. Noi, però, eravamo convinti di quello che facevamo».
Il momento più significativo di questi 15 anni?
«Quest'ultimo brano, “Don't worry”, ne avevamo bisogno tutti, richiama una speranza, qualcosa di positivo, descrive il momento che stiamo vivendo, è una canzone per la gente, è il pezzo che ci rappresenta adesso».
Quando non sei con la band che fai?
«Convivo con la mia ragazza, Valentina, lavoro nello studio in casa, vado al bar, faccio la spesa, ogni tanto vado a pesca. Ho una vita normale. Alla gente che ci segue da 15 anni se n'è aggiunta tanta. Siamo alla terza generazione di ragazzi che crescono con la nostra musica, è una bella responsabilità».
Angelo Rogoli (Biggie Bash)
Prima del 2005 cosa facevi?
«Per tanti anni ho militato in una band punk a Mesagne, andavo in giro con la cresta in testa e gli anfibi ai piedi. Ci chiamavamo i “Randagi malvagi”, era l'epoca delle band punk, si mischiava il punk con la ska e con il reggae».
Come sei entrato nei BoomDaBash?
«Ci ritrovammo alla Giornata dell'arte al porto di Brindisi, una manifestazione dove si esibivano i gruppi musicali nell'ambito studentesco. Io suonavo nell'area rock e dall'altra parte c'erano i Boomdabash e la gente stava lì. Dopo lo show andai da loro e dissi: “Fate bella musica, mi piace il reggae, perché non facciamo una cosa insieme?”».
Chi erano i tuoi idoli musicali?
«Da bambino ascoltavo la musica di mamma e papà, soprattutto i Queen. A volte con gli altri bambini della parrocchia invece che giocare a pallone nel campetto dell'oratorio, rubavamo le chiavi della chiesa per suonare l'organo e cantare».
Cosa porti nella band?
«Io sono specializzato nei testi, le parole mi vengono fuori nei momenti più disparati della giornata, difficilmente scrivo stando fermo in studio, scrivo nella testa, magari mentre guido o sono in bagno. Il ritornello di “A tre passi da te” mi è venuto mentre mi stavo asciugando dopo la doccia e mettevo i calzini».
Il reggae per te cosa significa?
«È un movimento di musica, di idee, tradizioni, è comunicazione. Nel Salento da sempre c'è un grande intreccio tra musica reggae e tessuto sociale. Basti pensare all'esperienza dei Boomdabash: noi siamo ragazzi nati per strada, cresciuti in un momento difficile a livello sociale del Salento e del Sud Italia. Il reggae è stata una grande occasione di riscatto, un modo per salvarsi la vita, una chance».
Mai pensato di mollare e diventare solista?
«No, questo è sempre stato il sogno che tutti abbiamo inseguito con tanti sacrifici, non c'è mai venuto in mente di scioglierci, neanche nei momenti difficili».
Perché un disco sui vostri 15 anni di carriera?
«Dopo tanti anni di affetto e sostegno da parte delle persone, è subentrata la voglia di restituire e fare un regalo ai nostri fan. Ci sono tutti i brani che hanno attraversato questi 15 anni e anche brani inediti, per mostrare chi sono i BoomDaBash attuali».
L'ultimo inedito è “Dont' worry”.
«Questo pezzo nasce un anno fa, poco prima dell'emergenza Covid, poi il progetto si è bloccato, come tante cose professionali, ma è sempre stato lì e dopo l'estate abbiamo sentito la necessità di tirarlo fuori in questo momento: è un inno alla speranza, a rimanere lucidi, a non abbattersi in nessuna circostanza della vita».
Una tua fotografia del vostro percorso?
«Mi viene in mente il momento più alto della nostra carriera, il Festival di Sanremo del 2019. Abbiamo passato l'infanzia e l'adolescenza a fantasticare e poi ci siamo ritrovati su quel palco e abbiamo avuto un discreto successo. Ci siamo difesi bene».
Quando non sei con la band cosa fai?
«Sono uno sportivo e negli ultimi anni ho riscoperto la vena atletica. Una delle mie passioni è il cross fit, mi alleno anche in casa. E mi piace molto leggere».
Fabio Clemente (Ketra)
Prima del 2005 cosa facevi?
«Ero, come si dice, uno scappato di casa che tentava di dare un senso alla propria vita, ho fatto tanti lavori, il lavapiatti, il commesso, il barista, e ho pure giocato a calcio a livello agonistico, nel Pescara, nel Lanciano, nel Pisa, nella Viterbese, ho avuto una mezza carriera, ma sono sempre stato molto onesto, non potevo arrivare in serie a e ho cambiato rotta».
Il tuo amore per la musica come nasce?
«Mia mamma aveva un negozio di abbigliamento e non c'erano i soldi per la baby sitter, dopo gli allenamenti di calcio, passavo il tempo dentro la sua macchina parcheggiata davanti al negozio. In attesa che finisse di lavorare ascoltavo le canzoni di Barry White, i Queen, Bob Marley. Quelle note poi, inconsciamente, ti restano dentro».
Come l'hai coltivato?
«Da autodidatta. Il nostro sound non viene né dal conservatorio né da una scuola di canto, i nostri difetti sono diventati i nostri pregi. Prima non c'era Spotify, mi sono comprato un campionatore e ho cominciato a campionare, “rubavo” piccoli sample, cercavo di creare delle mie idee».
Come sei entrato nella band?
«Studiavo giurisprudenza a Roma, ho fatto solo un esame, ma ho conosciuto Biggie, anche lui studiava lì e si era appropriato della brandina di casa mia. Le prime canzoni le abbiamo create in venti metri quadri, in questa periferia romana dove passava mezza scena reggae, giorno e notte per cinque mesi».
All'interno del gruppo sei quello che...
«Porta la musicalità, ora il nostro sound si è differenziato e ci distingue. Noi ci confrontiamo molto, fra noi c'è un grande scambio di idee. Io sono l'unico non salentino, ma ormai sono salentino acquisito, parlo anche in dialetto».
Il momento più significativo per te di questi 15 anni?
«Ce ne sono un paio. A Sanremo Giovani nel 2019 quando abbiamo cantato con Rocco Hunt, a livello personale, di produzione, è stata una soddisfazione. E poi all'inizio, una serata in Salento: sono arrivato per cantare, c'era Payà che già spaccava, Biggie pure, io ho preso il microfono, ho cantato e ho fatto schifo, erano tutti fermi e immobili. Da lì ho cambiato mestiere e mi occupo di basi e produzione».
Mai pensato di mollare la band?
«Come fai a mollare? Impossibile. C'è come un patto di sangue, non ti puoi separare, a me la band serve per differenziare con i progetti fuori, io collaboro con autori molto bravi, tra cui Takagi che è il mio socio».
Ora cantate “Dont' worry”. A te cosa preoccupa?
«Niente, parlando a livello musicale. La cosa più sbagliata è fare calcoli discografici, bisogna tirare fuori canzoni e musica perché la gente ne ha bisogno. Se abbiamo questo potere di dare tre minuti di spensieratezza e libertà con una canzone, allora il Covid non può vincere».