Nell'album ci sono otto canzoni nuove e 15 (nel formato doppio vinile; nel cd sono 12) classici reinterpretati, che sembrano scritti questa mattina, a partire da due pezzi, “Non farti cadere le braccia” e “Un giorno credi”
S'intitola “Non c'è” il nuovo album di Edoardo Bennato, uscito il 20 novembre. È il suo ventunesimo in studio e l'impressione, soprattutto nei giorni tesi che stiamo vivendo, è che questa lunga storia di canzoni partita nel 1973 con “Non farti cadere le braccia” sia una sorta di unico infinito concerto.
In “Non c'è” ci sono otto canzoni nuove e 15 (nel formato doppio vinile; nel cd sono 12) classici reinterpretati, che sembrano scritti questa mattina, a partire da due pezzi, “Non farti cadere le braccia” e “Un giorno credi” che erano proprio in quel disco del 1973.
Parlare con Edoardo Bennato vuol dire immergersi in un mare di parole, dove si susseguono intuizioni, ragionamenti, ricordi, invenzioni estemporanee, battute, note di amarezza e di stupore. E ogni canzone citata viene “recitata” in una sorta di piccolo spettacolo personale. Due ore di chiacchierata diventano un libro che, a seconda della “pagina” che si sfoglia, è favola, saggio sociologico, libretto d'opera, pamphlet di denuncia. Non si può arginare. Ma meglio così.
Bennato, partiamo dalla musica di “Non c'è”. Le vecchie canzoni stanno proprio bene di fianco a quelle nuove. Non la stanca, non la stupisce, non la fa arrabbiare il fatto che canzoni di cinquant'anni fa siano ancora così attuali? Dobbiamo ancora non farci cadere le braccia, insomma, e questo non è tranquillizzante.
«Ho voluto fare un album di 23 canzoni, con quelle scritte tre mesi fa e quelle della prima ora, proprio perché mi sono reso conto che non c'è soluzione di continuità. È chiaro che “Bravi ragazzi” è la colonna sonora di quel che vediamo oggi: “Una di notte c’è il coprifuoco… tutti dentro chiusi ad aspettare… È stato proprio commovente vedere tutti quei grandi sacrificare le proprie idee in nome del bene della gente. Poi hanno dato severe istruzioni: di stare calmi e di stare buoni”… Questo brano è scritto mezz'ora fa! Non è un caso che per la copertina ho immaginato la prima pagina di un quotidiano che uscirà domani e i suoi strilli sono i testi delle canzoni. In primavera avevo fatto l'ennesima ballata acustica con mio fratello Eugenio, “La realtà non può essere questa”. È una ballata tipo “L'isola che non c'è” (che nel nuovo disco c'è, ndr), ma parte da un altro presupposto. L'Isola rappresenta l'utopia, il sogno, magari irrealizzabile, e quindi può essere un comodo alibi: visto che l'isola non c'è, è inutile cercarla… Adesso invece il “messaggio” è questo: la realtà non può essere questa che stiamo vivendo e dobbiamo cambiarla, non come sogno o utopia, ma per la nostra sopravvivenza. Dopo questo brano, in estate, Eugenio mi ha detto: “Senti, la situazione intorno a noi è comica, tragica, spettrale, kafkiana, collodiana: hai fatto bene a rifare “Mangiafuoco” (anche questa nel nuovo disco, ndr) e le altre canzoni, ma devi farne un'altra facendo ricorso a tutte le tue risorse bennatiane”… Ho risposto all'appello ed è uscito “Maskerate”, l'ultimo pezzo che scritto, che rappresenta l'eversione del rock. Del resto il rock dev'essere eversivo, non può essere conciliante come la musica leggera».
In “Non c'è” ci sono tre collaborazioni molto interessanti: con suo fratello Eugenio, in “La realtà”, con Morgan in “Perché”, e con Clementino nell'“Uomo nero”. Artisti di generazioni molto diverse…
«Nel 2005 avevo fatto l'album “La fantastica storia del pifferaio magico” in cui raccolsi attorno a me tutti i personaggi della musica di cui ho stima, da Alex Britti a Irene Grandi, Jovanotti, i Negrita, i Sud Sound System… A me piace avere un dialogo costante con gli altri, vado ai loro concerti. Con Morgan ho da tempo un'intesa e lo stimo molto. Ha i suoi eccessi, ma a me sta bene così, perché vedo i suoi grandi meriti e le sue capacità: in una nottata Marco può scrivere le partiture per un'orchestra sinfonica e parla sempre con cognizione di causa… La scelta di “Perché” non è causale: siamo due pazzi scalmanati che si raccontano le loro schizofrenie. Eugenio è sempre il mio deus ex machina, è quello che dalla prima ora mi consiglia, e lo ascolto perché mi è complementare e se io ho una marcia in più a livello di contenuti rispetto agli altri (lo dico anche a costo di apparire supponente!), è proprio perché mio fratello mi ha dato i consigli: gli altri non ce l'hanno un fratello come lui, è il mio asso nella manica. Con Clementino faccio “L'uomo nero” e giochiamo con l'antica minaccia dell'uomo che fa paura, perché entrambi abbiamo punti di riferimento con la pelle scura: i miei sono stati B. B. King, John Lee Hooker, Chuck Berry, Ray Charles, Fats Domino… I suoi sono i rapper di Los Angeles e New York. Insomma, per noi il colore della pelle non solo non ha significato, ma a volte chi ha la pelle nera può avere una marcia in più… Oddio, adesso è un razzismo al contrario… Tutti gli esseri umani hanno le stesse capacità e potenzialità fisiche e morali a dispetto del colore della pelle».
Quanta voglia ha di tornare di fronte al pubblico? Di portare “Non c'è” nei concerti?
«Io ho già dei biglietti venduti da mesi al teatro degli Arcimboldi di Milano, all'Auditorium di Roma, in Svizzera, e quindi questi concerti dovremmo farli. O potremmo farli, e sarà bello farli… Energia creativa ne ho tanta e sono allenato fisicamente. Mi hanno fatto un esame e mi hanno detto che ho la situazione polmonare e cardiaca di un atleta di 25 anni… In teoria e in pratica sul palco come frontman ci posso andare, ma c'è un problema che viene da lontano. Il problema riguarda l'esposizione di Bennato: un album come “L'uomo occidentale” (2003) non lo conosce nessuno, e così “Sbandato” (1998) e “Pronti a salpare” (2015)… Pensa al testo di “Non c'è”, scritto da Eugenio: parla di un ragazzo speciale, che non vuole accettare compromessi, e già da ragazzino ha deciso che il successo non gli serve, che comporta problemi e tensioni, e io invece protervamente continuo a inseguirlo. Peggio per me».
D'altra parte, si dice che dopo l'uscita di “Non farti cadere le braccia” alla casa discografica le consigliarono di cambiare subito mestiere, di dedicarsi all'architettura…
«Non è un aneddoto: è un episodio fondamentale. Lì ho capito che non è bello oggettivamente quello che è bello, ma quello che viene promosso e fatto ascoltare. A Milano avevo già fatto parecchia gavetta, con la Numero Uno, con la Ricordi, con Lucio Battisti, Mara Maionchi, Mogol… Finalmente riuscii a fare questo album: “Non farti cadere le braccia”. Non a caso in copertina c'è l'ultimo fiammifero rimasto in una bustina: era un po' la mia ultima chance. Dopo un paio di mesi chiamai Lucio Salvini, direttore della Ricordi, e lui mi disse “Senti, Edoardo, noi non abbiamo niente da rimproverarci, ce l'abbiamo messa tutta, abbiamo fatto tutto quello che la routine prevede in questi casi, però i programmatori della Rai hanno detto che la tua voce è sgraziata, è sgradevole, per cui, abbi pazienza, noi non abbiamo niente da rimproverarci, tu hai un mestiere di riserva e quindi fai l'università e levati dai piedi”. A questo punto, siccome ero stato in Inghilterra, avevo visto i musicisti di strada suonare come one-man band e l'avevo fatto anch'io, con tamburello a pedale (costruito da me), armonica, kazoo e chitarra 12 corde, mi piazzai in un posto strategico a Roma, vicino alla Rai di viale Mazzini, e mi misi a suonare. Mi andò bene perché passarono dei giornalisti rampanti di un settimanale che era il vangelo delle nuove generazioni di quel momento, “Ciao 2001”, e questi mi presentarono al direttore, che a sua volta mi “iscrisse” a un festival a Civitanova Marche dove c'erano personaggi come Franco Battiato, Claudio Rocchi, Claudio Lolli… tutti alternativi al baraccone della musica leggera… Oh, siamo in anni in cui Sanremo, ahime, era ridotto a uno spettacolo parrocchiale o poco più, perché le nuove generazioni cercavano qualcosa di alternativo, di più in linea coi tempi, qualcosa che non fosse solo “leggero” nel senso di scordiamoci i guai e divaghiamo, di ascoltiamo musica per non pensare. Ecco, io partivo dal contrario: la musica serve per dare buone vibrazioni di energia positiva, e nello stesso tempo serve a far riflettere su certi paradossi davanti agli occhi di tutti e che però facciamo finta, per indolenza, pigrizia o superficialità, di non vedere. Anche i brani del mio nuovo album fanno parte di questa tipologia di canzoni. Insomma, a ottobre mi richiamo Salvini e mi disse: “Caspita, hai fatto tutti i festival possibili e immaginabili, sei diventato una leggenda! Facciamo un 45 giri con “Ma che bella città” e “Salviamo il salvabile”, e poi nel febbraio del 1974 feci “I buoni e i cattivi” che in effetti è il mio vero primo album: l'altro lo ascoltarono solo dopo aver ascoltato questo».
Le canzoni di “Non farti cadere le braccia” sono rimaste attuali, lo abbiamo detto. Ma di quei giorni che cosa le è rimasto? Un oggetto, tipo…
«C'è ancora il porta-armoniche in rame che mi feci fare da un fabbro di Lovere, sul Lago d'Iseo, perché quando tornai dall'Inghilterra in Italia mica si vendevano questi supporti. Ma io, voglio che sia chiaro, vivo intensamente il presente e il motivo per cui ho accettato di fare un album come “Non c'è”, con 23 canzoni, è proprio perché ho messo insieme pezzi che sembrano fatti tutti adesso, alla luce degli eventi. Non sono un indovino, non ho la sfera di cristallo. Sono semplicemente uno che complementarizza la sua attività di musicista, saltimbanco, cantautore, con quella di sociologo di urbanista, di architetto, e quindi assumo istintivamente i parametri che reputo essenziali e fondamentali rispetto alla realtà che vivo, pur coi miei limiti, traumi e schizofrenie. Schizofrenie che però sono di solito opposte a quelle degli altri. Sono schizofrenico al contrario».
Le è mai capitato di pensare: questo è stato proprio un errore! Un treno perso!
«Ammesso che io abbia fatto degli errori, gli errori servono proprio per capire (non per giustificare!) e rinforzare le idee. Faccio un esempio. Nel 1990 mi dicono che Caterina Caselli vuole che io faccia il testo per la “sigla” dei Mondiali di calcio che si giocano in Italia. D'istinto dico: “È una pazzia, è una cosa che non mi posso permettere, verrei fatto a pezzi!”. Poi, però, Caselli, Gianna Nannini e Giorgio Moroder, l'autore della musica, insistono, mi lascio convincere e ai primi di giugno mi presento in pompa magna sul palcoscenico dell'apertura dei Mondiali, in mondovisione con Gianna Nannini: è “Un'estate italiana”. Anni dopo, un giornalista di un certo ambiente mi dirà: “Edoardo, non posso non dirti che tu per noi eri un idolo, un punto di riferimento, ma quando ti abbiamo visto sgambettare con Gianna Nannini, credimi, ci è crollato un mito…”. Aveva la stessa espressione con cui avrebbe detto: “Tu per noi eri un mito, ma quando abbiamo saputo che vendevi la droga davanti alle scuole elementari ci sei crollato”. C'è però un rovescio della medaglia… Nel luglio del ’90 sono al festival di Pistoia Blues e c'era anche B. B. King, uno dei miei idoli. Qualcuno gli propone di fare un pezzo con me: “E chi è questo Bennato?”, dice lui. Non sanno che dirgli, finché uno non dice “È quello che ha fatto la sigla dei Mondiali!”, e questo diventa il rassicurante passepartout per B. B. King e facciamo insieme, guarda caso, “Signor censore”. La sigla dei Mondiali mi costò critiche feroci, ma mi fece suonare con B. B. King, che nel 1992 mi invitò a a suonare di nuovo con lui al Rocce Rosse Blues Festival di Arbatax e mi disse “Man, you can play the blues”. Mi conferì la laurea honoris causa in blues».
Faccio un salto ancora più indietro nel tempo. Una delle prime cose che ha fatto è stata la musica per “Cin cin con gli occhiali”, una garbatissima canzone del 1968 che era un inno contro la timidezza dei ragazzini costretti a portare gli occhiali. La cantava un grande dimenticato, Herbert Pagani…
«Sono cose che forse non ho mai raccontato a nessuno. Io mi iscrissi alla facoltà di Architettura a Milano non perché quella di Napoli non fosse all'altezza, ma perché avevo questa l'idea di fare musica e le case discografiche erano a Milano. Bazzicando nei corridoi, conobbi Herbert Pagani… Mi colpì, era forte, era anche un grande pittore, era un intellettuale, un artista, un alternativo… Però era anche in grado di fare una canzonetta allegra, spensierata, quindi io ci misi questa frase musicale e lui fece il testo. Herbert Pagani è stato un punto di riferimento costante e ho avuto sempre tanta stima per lui. Disegnava, come me. Pensi che per la copertina di “La torre di Babele” ho impiegato più energie che per le canzoni del disco, perché l'ho fatta e disfatta parecchie volte».
Adesso scriverebbe canzoni per altri?
«Diventa complicato. Nella “Fantastica storia del pifferaio magico” ogni artista ha cantato una mia canzone e io ho detto di personalizzarle, che le rendessero loro, e quindi questo esperimento l'ho già fatto. A Irene Grandi ho confezionato addosso come un vestito “Sono nata in una grande città”, perché lei mi piace, la stimo molto, come molto mi piace Giusi Ferreri, come persona, come cantante, come tutto. Ma diciamo che è già complicato scrivere per me».
Qualche giorno fa un'amica mi ha parlato dei suoi bambini che hanno attorno ai 10 anni e cantano tutto il giorno “Burattino senza fili”, un disco che anch'io da ragazzino cantavo dalla A alla Z. Ma chi non ha mai cantato «Quanta fretta, ma dove corri?»? Com'è nato quell'attacco?
«Da ragazzino, Collodi mi aveva colpito molto. Quando mi chiedono quali sono i libri della mia vita, io dico “Pinocchio”, “Robinson Crusoe” di Daniel Defoe e “1984” di George Orwell. La favola di Collodi mi dava un'impalcatura perfetta per costruire i miei personaggi: come rappresentare i persuasori occulti? I manipolatori di coscienze? Quei manager che utilizzano le tue aspettative e velleità per trarne vantaggio? Chi meglio del Gatto e della Volpe? E così Mangiafuoco rappresenta il potere che ha in mano i fili, anche se poi, analizzando la situazione, il potere riceve linfa dalla stupidità delle masse, diventa più aggressivo e più repressivo là dove le masse sono più ignoranti e meno consapevoli… Avrei potuto fare una cosa “gucciniana”, tipo (e qui canta imitando Francesco Guccini, ndr) “Penso a tutti quelli che ci fermano agli angoli di una strada e ci danno l'ubi consistam e ci invitano a diventare ricchi e famosi: io non li voglio più!”, e questo è un modo per condannare il gatto e la volpe e chi fa leva sulle nostre ambizioni. Io invece canto “Quanta fretta ma dove corri? Dove vai?”, perché quando sono sul palco a fare queste mie canzonette (o canzonacce) devo attirare l'attenzione sia dei professori universitari sia dei bambini di 6 anni, e quindi con la coda dell'occhio dal palco osservo i bambini che ballano e si divertono. Ieri scrivevo “Mangiafuoco”, “Il gatto e la volpe”, “In prigione”; in questo momento ci sono “Signore e signori”, “Il mistero della pubblica istruzione”, “Maskerate”: l'obiettivo è coinvolgere tutti. Io in ambito universitario ho fatto e farò lezioni di sociologia o di geopolitica, perché è materia che conosco bene, ma nel campo della musica devo fare il saltimbanco, il “pazzaglione”, devo divertire. Tra le righe ci sono informazioni e dati, però in prima istanza devo colpire per la musica, per la gestualità, devo dare buone vibrazioni prima di dare informazioni e invitare a riflettere…».
Però sono sicuro che quando ha suonato con la chitarra «Quanta fretta, ma dove corri?» per la prima avrà detto: “questo è un attacco meraviglioso!»…
«Prendevo spunto da un certo rock americano Anni 50/60: Paul Anka, Bobby Darin, Bobby Rydell… Il Neil Sedaka di “Happy Birthday, Sweet Sixteen”», e inizia a cantare in un inglese maccheronico… «Eh, io parto sempre dal finto inglese. È nata così anche “Sono solo canzonette”: stavo giocando a pallone, e stranamente quando gioco a calcio penso ancora più intensamente… A un certo punto mi fermai, andai vicino alla fidanzata di allora e le dissi “Sono solo canzonette…”. Mi guardò in modo interrogativo, ma io avevo già una musica e una frase in inglese finto e sapevo come usare quelle parole. Insomma, l'inglese mi aiutava a trovare anche le sonorità giuste, e poi avevo l'impalcatura di una favola e quindi il testo di “Il gatto e la volpe” mi veniva suggerito da Collodi stesso: Pinocchio sta andando a scuola, il su' babbo (i toscani lo chiamano “babbo”, anche noi fratelli chiamavamo nostro padre “babbo”, ma non ho mai capito perché) gli aveva dato tutto quel che doveva avere. A un certo punto, a un angolo di strada, il gatto e la volpe lo fermano… È tutto lì. È stato facile».
Tornando al nuovo album, il video della title-track, “Non c'è”, lo ha ideato lei?
«Eh, con questa domanda ti fai un trabocchetto e ci cadi! Evidentemente ti è sfuggito il cartone animato che accompagnava la “Fantastica storia del pifferaio magico”! Lo ha fatto un fumettista napoletano, Marco Pavone. Ci siamo rivisti a Milano, dove lui vive e opera, e gli ho detto che mi sarebbe piaciuto fare un cartone animato per “Non c'è” e lui s'è inventato tutto.
Che cosa ruberebbe ai suoi due fratelli, Giorgio ed Eugenio?
«Giorgio è razionale e ragioniere, lui fa in modo che i conti tornino, e quindi è antitetico rispetto a me e a Eugenio, che ai soldi non pensiamo mai. Anche lui fa musica (ha pubblicato diversi album firmandosi Giorgio Zito, ndr), sa cantare, conosce bene la musica… A Eugenio invidio il fatto che lui l'esame di Meccanica razionale all'università lo ha fatto ripassando in treno perché ha questa grande capacità di apprendimento… Per me, invece, gli esami di Analisi, di Geometria analitica, sono stati uno “sperpetuo”! E anche l'esame di Chimica: il professor Gaudiano mi disse “Bennato, le do 18 proprio perché mi fa pena: lei di chimica non capirà mai niente”. Fu solo pietà, perché quel giorno lui arrivò, chiese “Chi vuole venire per primo?” e nessuno si mosse. Io gli portai una sedia e lui apprezzò il mio coraggio. Cominciò a farmi domande e capì che io di chimica non avevo capito assolutamente niente, nonostante avessi frequentato tutte le sue lezioni».