Elisa: la sua carriera, la famiglia e il nuovo album «Diari aperti»

Undici canzoni in italiano che sono anche 11 fotogrammi della sua vita. Si potrebbe sintetizzare così il decimo album in studio della cantante, intimo e introspettivo come mai prima d’ora

Elisa Toffoli. Nella sua carriera, cominciata nel 1997, ha venduto oltre cinque milioni e mezzo di dischi
9 Novembre 2018 alle 14:54

Undici canzoni in italiano che sono anche 11 fotogrammi della sua vita. Si potrebbe sintetizzare così «Diari aperti», il decimo album in studio di Elisa, intimo e introspettivo come mai prima d’ora.


Elisa, vogliamo definirlo l’album della maturità?
«Sì, penso che lo sia, inevitabilmente. Credo di essere stata un po’ più pulita, più precisa ed equilibrata che in certi altri casi. Volevo fare delle canzoni semplici, a fuoco, che fotografassero questo momento. Ho volutamente lasciato fuori una serie di cose che potevano essere fuorvianti, che potevano confondere. E questa è una scelta matura, ahimé! Quindi sì: è il mio disco della maturità».

L’unico ospite è Francesco De Gregori. Com’è andata con lui?
«Sono sua fan da sempre. È un punto di riferimento gigantesco e ho anche un rapporto molto emotivo con alcune sue canzoni. Avevo paura d’incontrarlo. Per fortuna è stata stemperata perché mi ha invitato ad arrangiare “Buonanotte Fiorellino” per il suo concerto all’Arena di Verona. Ci siamo trovati subito bene. Siano diventati amici (lo dice abbassando la voce, ndr). Così ho scritto la canzone e gliel’ho mandata. È stato difficile schiacciare quel cavolo di tasto (ride). Per fortuna gli è piaciuta subito tantissimo, altrimenti sarei morta».

Questo è il suo secondo album tutto in italiano. Hanno vinto quelli che da sempre la spingono ad abbandonare l’inglese?  
«Sto cercando anch’io di capirlo. La verità nuda e cruda è che quando si è trattato di fare introspezione a questi livelli era più viscerale l’italiano. L’inglese continuo ad amarlo moltissimo. Non lo nego, è un rapporto tormentato dover scegliere tra le due lingue. Perché riconosco la potenza e la visceralità dell’italiano e dall’altra parte amo l’identità e il canone estetico che l’inglese conferisce alla mia musica».

Agli inizi fu uno shock: una ragazzina di Monfalcone che con un disco in inglese conquista un triplo Platino e vince pure la Targa Tenco...
«Provarono a fermarmi in tutti i modi, ma dalla mia avevo che ero giovanissima e molto determinata. Non mi sentivo penalizzata perché italiana e lavoravo moltissimo sui testi. Erano complessi, non c’era niente di lasciato lì perché “suona bene”, non ho mai ragionato così. Anzi».

Tant’è che è uno dei rari artisti italiani ad avere pubblicato un album in Nord America, «Dancing».
«Ed è andato bene, incredibile! Ha venduto più di 100 mila copie là. Una cosa assurda, non potevo credere che fosse vero».

E poi la sua canzone «Ancora qui» finì nella colonna sonora di «Django Unchained» di Quentin Tarantino...
«Momenti pazzeschi. Eravamo in lizza per l’Oscar. A 18 anni per me “Pulp Fiction” era il pane, il sabato sera con gli amici si faceva spesso “serata Tarantino”. Aver scritto con il maestro Morricone, essere entrata in un film anti-razzista diretto da Quentin Tarantino... be’, se me lo avessero detto dieci anni prima sarei scoppiata in lacrime e avrei strisciato».

Il suo chitarrista, Andrea Rigonat, è anche suo marito. Come si mantiene l’equilibrio?
«Non è facile. Noi non parliamo molto di lavoro. Non è che lui mi deve raccontare la sua giornata e io la mia, non abbiamo molta voglia di fare ’ste robe. Io ho il mio studio, lui il suo. Non lavoriamo agli stessi progetti. Gli ho pure rubato un assistente (ride)! Come colleghi ci troviamo solo in certe fasi, come la preparazione di un tour o quando cominciamo ad arrangiare alcuni pezzi miei».

Come vi organizzate con i vostri due bambini, Emma Cecile e Sebastian?
«Vengono con noi ovunque. Facciamo tanti sacrifici per cercare di stare tutti insieme. Andrea era più fiducioso nella famiglia, perché aveva una storia familiare migliore della mia. Se non ci fosse stato lui non sono certa che avrei fatto dei figli, pur amando tantissimo i bambini. Ero stata chiara: non vorrò separarmi dai bambini ma non vorrò smettere di lavorare. Anche quando siamo a casa siamo molto presenti. Gestiamo tutto in prima persona, dal pigiama-party alle lezioni di piano e di danza. Non suono musica mia a casa, non ho foto di noi che cantiamo o riceviamo premi. Nulla. Non voglio che vengano i loro amici e vedano questo ingombro di madre, mi sembra crudele nei loro confronti. Meglio che con gli amici parlino d’altro».

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