Ermal Meta in redazione, l’intervista

In una lunga chiacchierata l'artista di origine albanese ripercorre con noi i primi 10 anni della sua carriera

Ermal Meta  Credit: © Fabrizio Fenucci
21 Giugno 2016 alle 06:56

Quando Ermal Meta è venuto a trovarci in redazione non si è limitato a cantare in diretta brani come «Odio le favole» (tratto da «Umano», il suo primo disco da solista) e «Big boy» (scritta per Sergio, il vincitore di «Amici»), ha anche sfogliato con noi l'album della sua carriera, cominciata dieci anni fa a Sanremo.

È stata una lunga chiacchierata in cui si è parlato di tutto, da come nascono le sue canzoni allo scioglimento del gruppo La fame di Camilla, dal rapporto con gli artisti che portano al successo i suoi testi e le sue melodie (su tutti, Marco Mengoni) all'amore per la famiglia e l'Albania, il Paese dove è nato nel 1981 e che ha lasciato a metà degli Anni 90. 

Ermal, guardando le prime foto scattate per Sorrisi in occasione del tuo debutto a Sanremo 2006, quando eri il chitarrista degli Ameba 4, che cosa ti viene in mente?
«Che sono invecchiato, prima di tutto. E poi penso che a un certo punto della vita si arriva a un bivio. Prima che Caterina Caselli ci chiamasse ero sul punto di andare a fare un corso come interprete a Bruxelles. Mi mancavano due esami per arrivare alla laurea e quella dell'interprete poteva essere la mia strada, ma io speravo nella musica, ci credevo e speravo che la musica credesse in me». 


Tu non eri il leader degli Ameba 4, questo ti pesava?
«Per niente. Mi andava bene quel ruolo, nutrivo una grande stima nei confronti di Fabio Properzi e la nutro ancora. Pensa che ho parlato con lui proprio stamattina, ed era da un anno che non lo sentivo. Con gli Ameba 4 si lavorava insieme agli arrangiamenti, scrivevo anche delle cose mie, però tendevo a essere più timido di adesso e quelle canzoni le mettevo da parte. Le ho poi incise con La fame di Camilla». 

Quel Sanremo non andò bene, gli Ameba 4 furono eliminati dopo la prima esibizione. In quel momento hai avuto qualche dubbio sul tuo futuro nella musica?
«Il dubbio c'è sempre stato e io credo nel dubbio, è come la paura che prova un pugile prima di salire su un ring. Ce l'aveva anche Muhammad Ali. Io ho tanti dubbi, costantemente, ma ho capito che mi aiutano ad andare meglio avanti».

Sei tornato a Sanremo nel 2010 con La fame di Camilla, questa volta da leader e con una canzone scritta e cantata da te. Queste foto, pubblicate all'epoca su Sorrisi, che cosa ti ricordano?
«Le guardo e penso che è stata un'esperienza meravigliosa. Questi ragazzi sono i miei fratelli, li sento praticamente tutti i giorni per qualsiasi cosa. Siamo rimasti più che amici».


Come mai il gruppo si è sciolto?
«L'ho deciso io quando ho capito che per me non andava più bene. È stato come quando finisce una storia d'amore. Quando sei innamorato di qualcuno ami il modo in cui questo qualcuno ti fa sentire bene. Ecco, io non mi sentivo più bene e ho deciso di chiudere. La via più facile sarebbe stata quella di continuare, restare nella "comfort zone", nella situazione più comoda , ma io volevo crescere, scontrarmi di nuovo perché non sono abituato a stare comodo».

Come la presero i tuoi compagni?
«Male, io stesso ero a pezzi ma fu necessario. Quel giorno a Bari, appena uscito dalla sala prove, piansi tantissimo, e mi viene da piangere anche adesso. Sapevo che qualunque cosa io avessi fatto in seguito non sarebbe mai stato più bello di così. Con quei tre ragazzi ho scoperto e vissuto pienamente per la prima volta questo lavoro: concerti, concorsi, mille chilometri per suonare un pezzo e poi tornare indietro. Eravamo stati definiti "la rock band sconosciuta più famosa d'Italia"».

Fu un salto nel buio o avevi già un'idea di come sarebbe proseguita la tua carriera?
«Non avevo piani, ma ho sempre avuto e ho fiducia nella vita. Ho una famiglia bellissima che mi ha aiutato a credere in me, consentendomi di sognare. E poi ero sicuro di avere del talento, sarei un falso modesto nel dire che è stata solo fortuna, ma il talento senza l'insistenza non serve a niente».

A quel punto ti si è aperta un'altra strada, quella dell'autore di canzoni. Quando hai capito che quella poteva essere la direzione giusta per te?
«Quando ho scritto "Le cose che non ho" e l'ho fatta sentire a Marco Mengoni. La canzone è uscita nel 2016 ma è nata qualche anno fa. Lui l'ascoltò, gli piacque e insieme l'abbiamo riscritta. Lui stava incidendo l'album "Pronto a corrrere", però non finì in quel disco perché a Marco non sembrava ancora completa. Ricordo che non aveva lo special, a me non veniva, e alla fine lo ha scritto lui».

In «Pronto a correre» ci sono «20 sigarette» e «Natale senza regali», entrambe firmate da te con Marco. Come sono nate?
«"20 sigarette" era stata scritta in inglese, si chiamava "Long Way Home". Il testo italiano l'abbiamo scritto a casa di Marco, io e lui seduti uno di fronte all'altro. È stato magico, io lo osservavo con attenzione mentre fumava e guardava i suoi disegni, che lui non voleva farmi vedere. Nella mia mente quei disegni sono diventati fotografie e così è nato il verso "E fumo 20 sigarette guardandoti su foto che io non scorderò"».

E «Natale senza regali»?
«Anche questa canzone è nata in inglese, il titolo era "Christmas Homeless", raccontava il Natale dal punto di vista di un senzatetto. Quando l'ho fatta sentire a Marco gli è piaciuta subito, anche perché lui è nato a Natale».

È sempre andata così bene con tutti?
«No, qualcuno si è anche permesso di modificare le mie canzoni senza che io venissi coinvolto. È successo un paio di volte e mi sono imbestialito». 

Potrebbe succedere ancora?
«Non credo, oggi le modifiche si fanno insieme, con persone con cui ho un grande feeling, Mengoni, Emma, Renga... Tra me e loro c'è un flusso umano, ci capiamo molto bene. So come suoneranno le parole con le loro voci, so che cosa vogliono. A volte, quando propongo loro una canzone, alcune parti sono ancora mancanti».

E dopo le prime soddisfazioni come autore hai deciso di tornare a cantare, per la prima volta come solista. Perché hai deciso di farlo con «Lettera a mio padre», un brano dal testo molto forte, in cui dipingi tuo papà come un mostro?
«Ci ho messo 20 anni a scriverla, ma quando era pronta non potevo aspettare, dovevo condividerla appena possibile. L'ho pubblicata per ricordare a me stesso che c'ero ancora. Era l'autunno del 2014, ricordo che voi di Sorrisi l'avete inserita nella vostra playlist e poco dopo Linus l'ha trasmessa durante "Deejay chiama Italia"».


Come hanno reagito i tuoi cari e le persone che ti conoscono?
«Tutti hanno capito la funzione catartica di "Lettera a mio padre" e forse per questo non ne abbiamo parlato tanto, non ce n'è stato bisogno. Mia madre si è commossa e ancora di più mia zia. In realtà pochi sanno che io avevo tentato di tornare a Sanremo proprio con questa canzone, nel 2014, ma non riuscii a entrare neanche tra i 60 finalisti».

Come mai, secondo te?
«Credo che non sia stato capita, forse era davvero troppo forte, ma una canzone deve essere così, la musica deve emozionare».

Dopo «Odio le favole», qualche settimana fa hai lanciato come singolo «Volevo dirti», un'altra canzone «bocciata» alle selezioni di Sanremo Giovani, quelle del 2015. Un altro esempio della tua insistenza...
«Le bocciature non mi fanno perdere fiducia nelle mie canzoni. In Albania c'è un detto che dice: "Chiedi il parere di dieci persone ma poi ignorale e fai quello che vuoi fare". Io sono così da quando avevo cinque anni... sono molto testardo. Magari sbaglio, ma se credo in una cosa non mollo l'osso neanche morto». 

Perché, tra tanti inediti, hai deciso di riproporre nell'album «A parte te», che Fiorella Mannoia e Moreno avevano già inciso due anni fa?
«Non perché non fossi soddisfatto, ma nella loro versione, che si intitola "Sempre sarai", mancava tutta la seconda strofa e la parte finale con i fiati, che mi divertiva molto. "A parte te" all'inizio è triste, ma poi si conclude gioiosamente con una festa di paese. Alla fine, sul dolore per il fatto che questa persona mi ha lasciato prevale la felicità per quello che mi resta di lei».

A cosa stai lavorando in questo periodo?
«Come autore ho sempre dei pezzi pronti, scrivo costantemente. E ho già tante cose in mente per il mio prossimo album, che sarà molto diverso da "Umano", anche nella realizzazione. Non ho degli standard da mantenere, faccio semplicemente musica e il prossimo passo voglio che sia diverso per continuare a divertirmi».

Quando lavori a un album pensi ai tuoi fan, i Lupi di Ermal?
«Non penso a come potrebbero reagire, il modo migliore per dimostrare ai fan il mio rispetto è non farli diventare il target della mia musica. Il vero obiettivo di quello che faccio sono io, il mio miglioramento. I fan non sono pesci da catturare lanciando una rete, non sono numeri, sono persone, ognuna con i suoi problemi. E sono contento se attraverso questa mia onestà riesco ad arrivare agli altri».

La tua «Big boy» è stata determinante per la vittoria di Sergio Sylvestre ad Amici. Era tra le tue canzoni già pronte?
«No, sono venuti da me perché sapevano che scrivo anche in inglese. Quando Pico Cibelli della Sony mi ha mandato il video di Sergio mi sono emozionato, ho pensato "Questo ragazzo è troppo lontano da casa" e ho scritto "Big boy", che poi lui ha cantato da Dio. Insomma, io ho dato il massimo, lui ha dato il massimo; alla fine le cose belle vengono fuori così».

Hai detto più volte che ti piacerebbe scrivere una canzone per Vasco Rossi.
«Vasco è la coerenza, quando lo ascolto io lo vedo, gli credo. Non sogno che lui canti un mio pezzo ma il mio massimo godimento sarebbe se lo ascoltasse e mi dicesse "Hai scritto una bella canzone, ma io non canto le canzoni degli altri". Perché Vasco non può cantare una mia canzone, non sarebbe più Vasco».

Perché «Sally» è la tua preferita?
«Mi ricorda in alcuni punti la storia di mia madre... Riconosco lei in questa donna che ha voglia di riscatto. La prima volta che l'ho ascoltata i miei occhi sono diventati due rubinetti che cercavo inutilmente di chiudere, è stato incredibile, me l'ha fatta vivere tutta. Ci ho ritrovato cose che avevo già visto».

Sei cresciuto in Albania ma vivi nel nostro Paese da più di 20 anni e fai parte della Nazionale Italiana Cantanti. All'Europeo di calcio per chi tifi?
«Mi sento come un albero le cui radici sono in Albania e le cui foglie sono illuminate dal sole dell'Italia. Però non posso non tifare per la nazionale albanese, è la prima volta che partecipa all'Europeo. Io però ho sempre esultato come un matto per l'Italia, fin dai Mondiali del 1990, i primi che ho potuto seguire in tv perché quando c'era ancora il regime non si potevano vedere i canali stranieri».

Senti un po' la responsabilità di rappresentare in Italia il tuo Paese d'origine?
«Sono contento di farlo, perché qui c'è ancora la tendenza a parlare del mio Paese solo in occasione di crimini commessi dagli albanesi, ed è sbagliato. Così si fa un grande danno, si offende un'intera popolazione. Le mele marce sono ovunque, anche nel frutteto più bello. L'Albania è un Paese bellissimo, pieno di arte e di cultura. Penso, per esempio, a Scanderbeg, il nostro eroe nazionale, e a quello che ha fatto per difendere la cristianità dall'invasione degli Ottomani. Vorrei andare in tv in prima serata a raccontare cose del genere».

Ermal Meta live nella redazione di Sorrisi

Ermal Meta in concerto dalla redazione di Sorrisi

Pubblicato da Tv Sorrisi e Canzoni su Mercoledì 15 giugno 2016

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