Fiorella Mannoia: «Se sono qui lo devo a papà e… alla Traviata»

La cantante ci racconta la sua carriera, dai primi 45 giri ai programmi tv. E Sorrisi la celebra con cinque dischi da collezione

Fiorella Mannoia  Credit: © Francesco Scipioni
6 Maggio 2021 alle 09:26

«Cosa provo se mi volto indietro a guardare la mia carriera? Oddìo, mi fa impressione! Non ho il culto della personalità e fuori dal palco non sto mai a cullarmi su quello che ho fatto. Una volta finito vado avanti. Poi, per il cofanetto “I miei passi”, mi hanno chiesto delle foto. Le ho prese, le ho messe sul pavimento ed è in quel momento che mi sono detta: ma quanti palchi ho calcato, quanta roba ho fatto, quante persone ho incontrato, quanti artisti meravigliosi... Ho passato più tempo sul palco che altrove!».

Eppure sembrava destinata al cinema: papà stuntman, fratello, sorella e lei stessa impegnati, con vari ruoli, in alcuni “spaghetti western”.
«Sì, ma ero già consapevole che non sarebbe stato il mio futuro. Non era la mia aspirazione, anche se mi sono tanto divertita».

La passione per la musica da dove arriva?
«Da mio padre. Era un appassionato di musica, soprattutto di opera, e suonava il clarinetto. Al posto delle favole, mi raccontava tutte queste storie tragiche della Traviata, Tosca, Madame Butterfly, che mi lasciavano traumatizzata perché queste poverette muoiono tutte... Fu lui, da musicista, seppur dilettante, a rendersi conto che avevo talento».

A 14 anni il primo contratto con la Carisch, che in Italia distribuiva i Beatles.
«E infatti io avevo tutti i loro dischi perché me li regalava la Carisch. Con questa etichetta ho inciso i miei primi tre 45 giri, ma senza averne consapevolezza. Ero troppo piccola».

Gli Anni 70: tanta gavetta e diversi cambi di casa discografica.
«Cominciavo a prendere forma. Sono stata fortunata, perché allora le case discografiche ci davano il tempo di crescere, di trovare noi stessi, ci aspettavano. Io ho cercato piano piano di trovare la mia strada, perché all’inizio mi vedevano come rock, ma io non mi trovavo in quella veste: per quanto amassi il rock, non era il mio mondo».

Com’era la Fiorella degli Anni 70?
«Sognavo anch’io di andare a Katmandu, in Nepal, come tutti i miei coetanei, anche se non ci sono mai andata. Però stavo sempre con quella cartina in mano a vedere dove stava. La musica, il cinema, la cultura, tutto era in evoluzione e io ero partecipe di quei temi generazionali».

I sogni artistici, invece, si sono concretizzati nel 1983, con l’incontro con Mario Lavezzi.
«Mario è stato importantissimo perché con lui abbiamo cominciato a delineare la strada che poi non ho più lasciato. Lavezzi produttore significa anche l’incontro con Oscar Avogadro e con Mogol...».

E un pezzo del calibro di “Come si cambia”, perla del Sanremo 1984.
«Era la prima volta che avevo un testo che parlava di sentimenti. Mi sono resa conto che questa voce così particolare, che tende a drammatizzare quello che canta, emozionava la gente. Da lì ho focalizzato tutta la mia carriera proprio sul provare a suscitare emozioni».

“Quello che le donne non dicono” di Enrico Ruggeri: la consacrazione.
«Da lì in poi si è aperta la porta della canzone d’autore di cui io mi sono nutrita. Sicuramente ho le mie capacità, non faccio la finta modesta, ma se non avessi avuto le canzoni che ho cantato, se non avessi avuto le collaborazioni che ho avuto, da Ruggeri a Fossati, da De Gregori a tutti gli altri, oggi non sarei qui. Devo molto anche al programma “Premiatissima”, dove io e le altre concorrenti avevamo la totale libertà di scegliere il repertorio che volevamo. Io ho scelto le canzoni d’autore, vincendo tutte le puntate, e i cantautori italiani si sono sentiti rappresentati. Quelle canzoni sono diventate mie. Questa è la forza di un’interprete: quando senti delle canzoni, le fai tue, le rielabori e questo ti dà una grande responsabilità. L’interprete è come il traduttore: deve tradire il testo il meno possibile».

Non a caso lei è l’unica donna ad avere vinto sei targhe Tenco.
«Una grande soddisfazione. Col Tenco sono entrata a tutti gli effetti nel mondo del cantautorato senza essere un cantautore. Un’atmosfera unica. Ricordo queste cene dove tutti volevano sedersi accanto a Guccini per non perdersi i suoi racconti. Lì ho conosciuto Joni Mitchell, Jobim...».

Dopo la canzone d’autore, l’incontro con la musica brasiliana.
«Nato con un duetto con Caetano Veloso e culminato in “Onda tropicale”, il disco di duetti che ho realizzato in Brasile. Quel Paese è diventato la mia seconda patria, ma soprattutto quell’esperienza mi ha profondamente cambiato. Vede, al tempo in Italia noi, “quelli della canzone d’autore”, avevamo una sorta di spocchia. Si può dire? Non ci mischiavamo. Se ti invitavano in tv chiedevi: chi c’è? E se c’era un cantante troppo pop ti ritraevi. In Brasile, invece, ho visto Caetano Veloso, Jobim, Djavan, artisti immensi, cantare e divertirsi nei palchi di artisti molto diversi da loro. Era la musica il collante, non chi la cantava. Lì ho capito e ho cambiato atteggiamento. Non m’importa più chi canta la canzone, ma la canzone. Ho collaborato con artisti apparentemente lontani da me, ma che dicevano cose in cui posso identificarmi».

Come mai ha firmato le sue prime canzoni solo nel 2012?
«Le cose succedono quando devono succedere. Anch’io me lo sono chiesta spesso, ma ero intimidita dagli autori che collaboravano con me. Ero convinta che le mie canzoni non fossero mai all’altezza».

Prima “Un, due, tre... Fiorella!”, quest’anno “La musica che gira intorno”: ormai fa anche tv.
«È stata una scoperta. Nella prima puntata di “Un, due, tre... Fiorella!” ero terrorizzata. Per fortuna c’era Sabrina Ferilli, un’amica, e sapevo che se avessi avuto bisogno mi avrebbe sostenuto. Cosa che è puntualmente successa. Mi ero dimenticata di entrare, e lei: “Che famo? Ce stamo a pensà?”».

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