Gigliola Cinquetti: «La mia vita spericolata e il bisogno di normalità»

La cantante si racconta a Sorrisi: dal suo leggendario esordio a 16 anni ai tour mondiali (coi tortellini alle 8 del mattino...)

Gigliola Cinquetti
31 Luglio 2021 alle 08:56

Si vedeva già in Oriente. Tanti concerti in Giappone, dov’è un mito da quando ci arrivò ragazzina nel 1965, e poi Singapore, Taiwan, Vietnam, Corea del Sud… E invece… «Sarebbe tutto pronto, ma ogni volta che si apre uno spiraglio di speranza, ecco una nuova complicazione nella pandemia e ci fermiamo» dice Gigliola Cinquetti, che così porta pazienza e aspetta nella sua casa nella campagna romana. Se non altro, è la situazione perfetta per passare un pomeriggio chiacchierando di 60 anni di carriera. A partire dai Måneskin, però…

Signora Cinquetti, è diventato un tormentone: i Måneskin come Gigliola! Come lei nel 1964 con “Non ho l’età”, hanno vinto il Festival di Sanremo e l’Eurovision Song Contest. E poi, come lei, sono entrati tra i primi 10 della Hit Parade inglese…
«Io sono molto contenta: la musica italiana è tornata in Serie A! Nel 1964 “Non ho l’età” andò in classifica in Inghilterra, ma si fermò al 17° posto; nel 1974, “Sì” (in versione inglese, “Go”, ndr) arrivò all’ottavo posto».

“Sì” in Italia ebbe vita travagliata: uscì nei giorni del referendum sul divorzio e usare le parole “sì” e “no” era vietato, per non influenzare il voto.
«Non solo il “Gran Premio Eurovisione della Canzone” (nel 1974 l’Eurovision si chiamava così e lei gareggiò con “Sì”, ndr) fu trasmesso in differita, e non potei cantare “Sì” neppure in altre trasmissioni… Ma fui molto contenta che il referendum venne poi vinto dai sostenitori del divorzio».

Torniamo alla giovanissima Gigliola… A proposito, è vero che il nome corretto sarebbe Giliola?
«Sì, ma non direi che sia corretto. Gigliola, Guglielmo, Azeglio vogliono il “gl”, ma un impiegato dell’anagrafe fece questo strafalcione e io me lo porto appresso».

Si emozionò di più per la vittoria a Sanremo o per quella all’Eurovision?
«Non mi sono emozionata tanto… Mi emozionava il palcoscenico in sé, com’era successo anche nel 1963, quando avevo vinto il Festival di Castrocaro. Nel mio percorso è stato più importante “esserci” che vincere».

Ma la sua vita quando è cambiata?
«Con Sanremo. Fu travolgente. Ma la mia vita era bellissima anche prima, e forse anche più bella. Essere conosciuta, avere visibilità, per me significava un’enorme responsabilità. A 16 anni ero diventata una sorta di ambasciatrice: sapevo che una parte importante del successo la dovevo al puro fatto di essere italiana. Questa responsabilità mi costringeva a essere sempre all’altezza, ed è stata una fatica che la piccola Gigliola ha affrontato piuttosto coraggiosamente, anche se con dubbi e momenti in cui ero tentata di fuggire».

Uno di questi momenti?
«Tante mattine… Mio padre Luigi aveva comprato una bellissima Mercedes per portarmi a cantare. Un macchinone su cui mangiavo, leggevo, dormivo, facevo la mia vita. Tornavamo verso Verona alle 4 del mattino, e quando arrivavo a casa mi dicevo: “A questo punto vado a scuola: cosa vado a letto a fare?”. E andare a scuola significava far finta di niente rispetto a quel che avevo fatto poche ore prima».

Di solito si parla di Gigliola come bambina prodigio, ma forse i veri prodigi erano i genitori.
«È vero! Erano due persone speciali. Mia madre Sara era spavalda. Durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale rimaneva a dormire in casa, perché era sprezzante del pericolo. Mio padre aveva fatto 11 anni di guerre varie, era un uomo di grande esperienza, un fantastico guidatore di automobili, ma aveva paura ad andare in aereo perché quello non poteva guidarlo, così diceva a mia madre: “Vaghe ti, Sara, che no te g’ha paura de niente!”. Una volta un concorrente di “Rischiatutto”, specializzato in araldica, se ne esce con una dichiarazione a “La Domenica del Corriere” che ci fa molto ridere: “Lo sapevate? Gigliola Cinquetti è nobile; Marina Doria, la moglie di Vittorio Emanuele di Savoia, no”… Allora dico a mio padre: “Ma che è ’sta storia?”. Lui: “Sì, la nostra famiglia potrebbe godere di un titolo nobiliare”… “E perché non me l’hai mai detto?”, insisto. E papà: “Ma perché sono tutte stupidaggini! Io ho votato per la Repubblica, io credo nell’individuo”».

Che titolo era?
«Lo sapeva quello di “Rischiatutto”. Dipendeva dall’attività di editori di libri sacri di nostri antenati, aveva a che fare con un Papa… Ma io la penso come mio padre: sono stupidaggini».

Una curiosità frivola: una bambina come lei in giro per il mondo come si regolava col mangiare? Negli Anni 60 le abitudini alimentari degli italiani erano molto tradizionali.
«Quando andai in Giappone con mia madre, nel 1965, fu dura. Spesso non avevamo neanche il tempo di mangiare, eravamo sempre in viaggio. Ricordo una sorta di traghetto: il comandante ci diede la sua cabina, lurida come il resto della nave; a un certo punto saltò fuori un pezzo di pesce crudo, appena pescato, sbattuto su un’asse di legno: non certo quello che offrirebbe oggi uno chef… All’aeroporto di Linate, alla fine del tour, ci aspettavano mio padre e mia sorella Rosabianca, con un thermos pieno di tortellini: erano le 8 di mattina, ma mia madre e io ci buttammo su quel thermos! Poi ricordo una notte d’inferno a Saarbrücken, in Germania… Giravo una scena per la tv tedesca in un bosco: 10 gradi sotto zero e io, in abito da sera di tulle con le spalle nude, stavo sdraiata su un pianoforte bianco… A un certo punto, verso le 4, compare un piattone di salsicce e patate arrosto e mia madre se lo fa fuori in un battibaleno».

E lei?
«Io niente: io cantavo sdraiata sul pianoforte».

Ha conosciuto mezzo mondo dello spettacolo internazionale. Quali artisti l’hanno colpita di più?
«Tre artiste mi hanno incantato e ispirato. Ingrid Bergman: per me è la luce; poi Maria Callas: il canto; infine Carla Fracci: le braccia».

Le braccia?
«Non ho mai visto muovere le braccia, danzare con le braccia, come faceva la Fracci. Mi ha sempre emozionato e ha ispirato anche la mia teatralità».

Artisti maschi che le hanno fatto battere il cuore? Senza impegno, s’intende…
«(Ride) Detto che nello spettacolo considero infinitamente più interessanti le donne, tra gli uomini forse direi Elvis Presley: voce spettacolare. Uno dei primi 45 giri che ho comprato era il suo “A big hunk o’ love”. Poi mi fece un’impressione fortissima Jacques Brel. Lo vidi all’Olympia di Parigi: ero in fondo alla sala e il suo volto era piccolissimo, ma così magnetico che non potevo staccare lo sguardo. Lì ho capito che intensità avrei voluto raggiungere come interprete».

Nel 1968, mentre i giovani di tutto il mondo si ribellavano, lei portò a “Un disco per l’estate” una delle canzoni più strampalate della storia: “Giuseppe in Pennsylvania”.
«I miei autori volevano fare una cosa leggera, estiva, fuori stile con la canzone impegnata. Lì per lì non ero entusiasta, ma sbagliavo perché questa canzone è diventata un cult: il pezzo più brutto mai cantato da Gigliola! In realtà è solo folle, ma se lo ricordano tutti».

Dagli Anni 80 ha rallentato l’impegno nella musica e si è fatta vedere più in tv. Noia per la musica o fascino delle telecamere?
«Avevo due bambini e non potevo più pensare di fare la vita della cantante in giro per il mondo. Così potevo lavorare rimanendo a Roma. E poi c’era anche una situazione di crisi della discografia italiana. In quegli anni le grandi case sono via via scomparse, sostituite prima dalle multinazionali e poi nemmeno da quelle… Oggi il mondo della musica è diverso. Io canto in teatro il mio enorme repertorio e faccio anche delle cover… Ho messo in scaletta “Lady Jane” dei Rolling Stones… E poi “Yesterday”, che canto prima di “Non ho l’età”… È strano che non mi chieda di ciò che ho detto sui Beatles, sul fatto che “Yesterday” possa ricordare “Non ho l’età”, perché sicuramente loro l’avevano ascoltata».

Onestamente non sento un’assonanza. Piuttosto, mi sembrano due canzoni che dipingono un mondo…
«È così. L’idea di metterle insieme in scaletta è venuta a mio marito Luciano (Teodori, ndr) proprio perché non sono canzoni come le altre, ma sono la Storia, e partendo da “Yesterday”, cioè da “ieri”, si entra in una dimensione storica dove c’è anche “Non ho l’età”».

Nel 2013 i suoi figli Giovanni e Costantino sono arrivati quarti a “Pechino Express”. Pensando a quel che fece sua madre con lei, sarebbe andata in viaggio con loro per aiutarli?
«Hanno fatto tutto da soli. Mi sono limitata a dir loro che doveva essere bello vedere quei Paesi e che valeva la pena di partire anche solo per quello. Nei confronti dei miei figli non sono stata come mia mamma e mio papà furono con me. Penso che un’artista in famiglia basti e avanzi. Ci sarà anche un po’ di egoismo, ma c’è anche un istinto di protezione: non ho voluto che pagassero il prezzo che ho pagato io».

Ha qualche rimpianto?
«Non rifarei niente di quello che ho fatto, perché mi sarebbe piaciuto vivere tante vite. Il vantaggio di essere arrivata a un punto in cui il passato è più lungo del futuro è che il percorso è già fatto, non c’è più il problema di scegliere. Scelte se ne fanno fino all’ultimo, ma non così impegnative da dire: “Se sbaglio la pagherò per sempre!”. Ora me ne frego. L’unica cosa che non sopporto è che qualcuno si frapponga tra me e la felicità».

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