Il cantante si trova in Inghilterra per partecipare all'Eurovision Song Contest
Due vite e dieci anni. Tanti ne sono passati dalla prima esperienza eurovisiva di Marco Mengoni: era il 2013, aveva vinto Sanremo con "L'essenziale" e partecipava, nella svedese Malmö, a un concorso ancora poco conosciuto dagli italiani. "Due vite", poi, sono quelle della canzone con cui Marco ritrova l'Europa, ma anche quelle del Marco di ieri e di oggi.
«Io sono più grande - racconta Marco in un momento di pausa prima della prova della semifinale di martedì - in questi anni ho avuto l'opportunità di fare tantissime esperienze, di capire l'importanza che ha un palco del genere». A rivedere le immagini del suo primo Eurovision - il completo verde bandiera, il ciuffo cotonato, l'aria intimidita, l'inglese incerto di fronte ai giornalisti stranieri - e a pensare al Marco di oggi, è davvero tutta un'altra storia. «Allora ero molto giovane, inesperto. Mi sono fatto prendere molto dall'emotività del momento, dalla pressione, e non mi sono goduto ogni istante. Quest'anno sono partito con tutti gli strumenti appresi in questi anni di carriera: è più bello essere qui, ho trovato l'energia giusta». Un'energia che si è vista già dalla sfilata di presentazione, il "Turquoise carpet", che ha affrontato con l'aria di chi sta vivendo quest'esperienza nel modo giusto.
Chi, come noi, c'era anche allora, ricorda come all'annuncio della classifica definitiva, Marco avesse chiesto agli amici della delegazione italiana se il settimo fosse un buon piazzamento: lo era, ovviamente, perché entrare nella top ten è in ogni caso un ottimo risultato. Ma anche perché - e lo si è capito con gli anni - un Eurovision ben giocato può dare il via a carriere internazionali, anche di portata mondiale. Non a caso, Marco ha già incontrato il pubblico europeo più volte, il mese scorso. E ora annuncia un tour in luoghi significativi (Barcellona, Bruxelles, Amsterdam, Parigi, Francoforte, Vienna, Zurigo, Monaco) e in club e palazzetti di tutto rispetto il prossimo ottobre.
«Sarà davvero l'occasione di vedere quante persone hanno aderito alla mia musica e ai messaggi che ne escono» dice, parlando di «sfida», in luoghi che possono mettere paura, come lo Zénith a Parigi («ci ho ascoltato artisti che mi piacevano tantissimo, come Ben l'Oncle Soul»). Il pensiero, poi, va persino a un possibile "Due vite" in più versioni, in lingue differenti.
Intanto, però, la gara, attesissima da tutti. Vedremo Marco nella prima semifinale con un breve estratto della sua performance registrata (come per tutti i finalisti di diritto: i "big 5" e il vincitore dell'anno precedente), poi nella finale di sabato sera. Da qui, però, si respira anche altro. Il grigio della piovosissima Liverpool è punteggiato da striscioni gialli e azzurri che rimandano a ogni angolo del centro al messaggio dell'edizione: "united by music", uniti dalla musica. In molti luoghi della città ci sono i teneri pupazzi del "soloveiko", l'usignolo, che racconta le storie della Crimea, di Odessa, Kharkiv, Donetsk e tutti i luoghi in cui ancora si combatte. Dappertutto i colori sono quelli dell'Ucraina, chiaramente: avrebbe dovuto essere Kiev, dopo la vittoria della Kalush Orchestra a ospitare il festival (come accadde nel 2017). La bandiera del logo eurovisivo non è quella del Regno Unito, ma quella. appunto, ucraina e il tema della pace tocca tutti nel profondo.
«La musica è messaggera di pace e di amore, per me come per tutti i 37 Paesi qui a Eurovision - dice Marco - e da qui abbiamo l'opportunità di sostenere ancora di più questo concetto. Sarebbe stato bellissimo andare a Kiev, avrebbe voluto dire che la guerra è finita. Se potessi lo urlerei: sono contrario a qualsiasi guerra».
Fuori dalla "bolla" eurovisiva, Marco è candidato per la miglior canzone ai David di Donatello (il 10 maggio con la premiazione su Rai1) e attende la pubblicazione del suo prossimo album, "Materia (Prisma)", terzo capitolo della trilogia. Un periodo ricchissimo, certo, ma lui sa che bisogna vivere il presente con pienezza. «Cosa voglio dire a tutti? Il messaggio della pace è quello prioritario, non ci sono dubbi. Ma anche che non bisogna perdere tempo: ce n'è pochissimo e non lo possiamo decidere noi». E sicuramente Marco il suo tempo lo sta vivendo con pienezza, con la maturità di questi dieci anni che lo hanno fatto diventare quello che è oggi - e che l'Europa sta imparando ad amare.