Marco Mengoni: «Ho viaggiato dentro di me»

«La famiglia mi ha tenuto con i piedi per terra» ci racconta. «Ed è grazie a mia mamma che amo la musica soul»

Marco Mengoni  Credit: © Andrea Bianchera
9 Dicembre 2021 alle 09:00

Dal suo esordio ha cantato in ogni palazzetto dello sport e in diverse parti del mondo. La voce di Marco Mengoni è arrivata ovunque, anche in cima alle montagne. Il prossimo giugno quella voce arriverà pure negli stadi, eppure in lui c’è da sempre (ed è sempre rimasta) una particolare forma di timidezza. Se ci è facile immaginare chi è giovane e amato come uno “sbruffone” che insegue la fama, Marco è l’esatto opposto: giù dal palco ha un carattere introverso e spesso è di poche parole. Di solito parla molto con gli sguardi e dice tutto nelle canzoni. Oggi, però, farà più di un’eccezione. L’occasione per incontrarlo è “Materia (Terra)”, il suo nuovo album anticipato dai singoli “Ma stasera” e “Cambia un uomo”. È il primo di una trilogia di dischi nei quali ha promesso di raccontarsi come non aveva mai fatto finora. In queste prime nuove canzoni che già sono nelle orecchie di tutti, la promessa è stata mantenuta.

Una copertina “social”

Marco è il protagonista della prima “copertina digitale” nella storia di Sorrisi, che sarà sui nostri social dall’8 dicembre. Sullo sfondo c’è un dettaglio in esclusiva di un suo quadro e le parole scritte da lui raccontano il percorso del nuovo disco.

L'intervista a Marco Mengoni

Siamo a Milano, di fronte a quello che è a tutti gli effetti il suo “covo”. Sembra proprio un rifugio: per trovarlo è facile perdersi, ma al suo interno c’è tutto il suo mondo. Entrando vedo tantissimi strumenti musicali, libri, piccoli e grandi studi di registrazione. Neanche il tempo di guardarmi intorno e trovo Marco. Ci abbracciamo. Ha un grande maglione color glicine e anche se la mascherina copre bocca e naso, i suoi occhi dicono che è sereno. Mentre ci avviciniamo alla sala per ascoltare i brani del disco, passiamo davanti a una parete piena di quadri. Sono le certificazioni ricevute in questi anni per le vendite dei suoi album, da “Re matto” ad “Atlantico”. «Possiamo non stare qua per favore?» dice Marco sorridendo mentre osservo tutta la sua storia riassunta nelle copertine e nei Dischi di platino.

È la prima volta che entro qui, ma non mi distraggo troppo: da quando mi è stato chiesto di incontrarlo ho una domanda in testa, che è un po’ quella che avevano tutti quelli, come noi di Sorrisi, che lo seguono da quando questa parete che racconta la sua storia artistica era vuota.

Marco, che fine avevi fatto?
«Lo so, sono sparito (sorride). Dopo “Atlantico” mi sentivo come se avessi detto tutto quello che avevo da dire. Ero privo di stimoli e ho fatto quello che sentivo più giusto per me. Mi sono fatto da parte».

Oggi non è molto di moda sparire.
«Ti riferisci ai social? Non so se si può capire perché è davvero parte del quotidiano di tutti, ma il raccontarmi ogni giorno non avrebbe aiutato a risolvere quel problema. Per chi fa musica non avere più nulla da cantare è un incubo. Poi, non so, essere sempre pronto a seguire il tema del giorno... non è il mio ruolo».

È vero che parli poco sui social, ma quando parli…
«…sono molto diretto, specie su Twitter. Quando mi espongo è perché so già che posso fare qualcosa di concreto, nel mio piccolo, per aiutare nei fatti. Come nei temi ecologici, per esempio, o per dare forza nel sostegno ai diritti civili. Stando vicino alle donne».

Quando devi sfogarti cosa fai?
«Scrivo su carta, per lo più appunti. Dipingo, disegno tanto».

E canti.
«Certo. Questa cosa la dico da sempre: io non ho mai cantato per diventare qualcuno, non canto perché devo fare scena. Io canto perché mi sfogo. In un certo momento della mia vita era l’unica cosa che sapevo fare. Cantavo come qualcuno preferisce urlare. O piangere».

A volte serve anche parlare.
«È difficile, di solito l’istinto porta a chiudermi in me stesso».

“Atlantico”, così come altri tuoi album, nasceva da un viaggio. Da un paio d’anni non si può andare così tanto in giro. Cos’hai fatto?
«Sono rimasto a casa come tutti, spesso chiuso nella stanzetta dove “creo”. Ho iniziato a fare l’unico viaggio che forse non avevo intenzione di fare. Quello dentro me stesso».

Cos’hai trovato?
«(Rimane in silenzio per qualche secondo) Un bel casino!».

Non dev’essere stato facile.
«Doveva succedere prima o poi, ma ho dovuto parlare con il piccolo Marco, ricollegarmi con il passato, con la città dove sono cresciuto, ripensare tanto alla mia famiglia».

Della tua famiglia hai sempre parlato pochissimo.
«È vero. Negli ultimi anni penso di essermi tolto di dosso un sacco di paure che in qualche modo mi portavano a tenere la famiglia lontana dalla mia… come si può chiamare?».

Immagine pubblica?
«Sì, diciamo così. I nonni, i miei genitori sono sempre stati un punto di riferimento granitico, non ho mai saltato una festa comandata a casa, anche la meno importante. Vedi quei contenitori?» (Noto dei contenitori per il latte dietro di noi).

Quelli?
«Sì, li ho portati via dalla campagna di mio nonno, li ho ripuliti e trasformati in sgabelli da tenere qui».

La tua famiglia c’è sempre stata per te?
«Sempre, sempre. Nei momenti belli in cui la mia vita ha smesso di essere, tra virgolette, normale e anche in quelli scoraggianti, perché ci sono stati anche quelli. Le radici servono a questo, a tenere i piedi per terra».

Stavo per chiederti perché hai chiamato l’album “Materia (Terra)”, ma hai già risposto.
«Sì, tutto parte da lì. Parte da mia mamma che mi fa ascoltare musica soul, io che fin da piccolo mi appassiono al canto corale e gospel, al desiderio di sentire gli strumenti veri suonati dal vivo, come si faceva una volta».

“Cambia un uomo” è un singolo un po’ diverso dalla musica che si ascolta oggi in radio. E parla della capacità di saper chiedere scusa.
«È una chiave di lettura che è anche un po’ la mia. Crescendo ho capito che la maturità di una persona non è nel sentirsi grandi, ma nella capacità, nell’umiltà, di ammettere un errore e chiedere perdono. Ho imparato a farlo».

Iniziamo ad ascoltare il disco. Passiamo prima attraverso le collaborazioni: da Gazzelle nel brano “Il meno possibile” («Dopo aver scritto insieme “Calci e pugni” ci incontravamo a cena con la voglia di fare ancora qualcosa di bello» dice Marco) e “Mi fiderò” con Madame («Può sembrare strano perché lei e io abbiamo stili molto diversi, è vista come un’artista “trap”. Per me è una delle voci più blues che abbiamo in Italia, intendo nel suo modo di esprimersi. Ha scritto la sua parte di getto, mi ha lasciato senza parole»).

Abbiamo poi ascoltato “Appunto 1”. «Erano le quattro del mattino, non riuscivo a dormire» spiega. «Quando succede è perché a volte ho bisogno di sfogarmi. Ho acceso il microfono e cantato senza pensare alle parole. Avevo dei dubbi, stavo riflettendo sul disco ed è uscito questo flusso, quasi un mantra istintivo che dice: “Va tutto bene”. Era il 23 gennaio 2021, ancora nel pieno della pandemia». Con un’idea simile nasce “Appunto 2”, registrata il 14 maggio. I due inserti fanno da cornice a “Proibito”, un brano molto personale. Verso la fine, in una nota vocale, Marco dice (e non solo a se stesso): «Spero tu possa sentirti libero, di correre e aspettare, che tu possa credere, concedere. Spero, spero domani tu possa innamorarti».

È una canzone bellissima.
«Come molte persone non sono esente dalla paura. La paura è il freno più grande che possiamo avere quando vogliamo vivere un sentimento in modo libero. Sono uno che a volte si è arreso, si è fermato come molti al primo difetto. Nella musica ho sempre raccontato emozioni, considerandomi però nel privato poco incline al sentimento. Alla fine, qui lo dico nel modo più onesto che posso, sono molto più romantico di quello che ho sempre voluto far credere».

I tuoi genitori rappresentano un bell’esempio d’amore?
«Sono l’esempio assoluto. Sono due persone unite da tutta la vita. Sono due persone che si sostengono, sono alleati. Vicini ogni secondo. Quando torno a casa li guardo e rimango in adorazione. Voglio poter avere questo nella mia vita: è l’augurio che faccio a tutte e a tutti».

Passiamo a “Luce”, un brano che ancora una volta mette al centro un tema finora molto privato per Marco. Dalle parole del testo si capisce che sta parlando della sua mamma, Nadia. Sarà contenta.
«Credo proprio di sì. Avevo bisogno di dirle pubblicamente grazie per tutto quello che ha fatto per me e magari questa canzone non basterà, forse non sarà mai abbastanza. Mamma è la mia luce. Le chiedo anche di continuare a proteggermi, proteggermi come ha saputo fare in ogni modo finora…».

La sua voce si interrompe. Marco si commuove. Ascoltiamo tutto il resto del disco tra emozioni e sorrisi: non manca il ritmo, le contaminazioni del funk e della black music.

A giugno canterai in due stadi. Come si fa a passare da due anni nella stanzetta o in questo covo a un posto con migliaia di persone?
«Ti dico la verità, non mi spaventa l’idea. Ciò che sento oggi è più l’eccitazione di ritrovami al centro di uno spettacolo così grande. Da sempre sono convinto che la musica inizia a vivere davvero quando le persone che la ascoltano sono sotto al tuo palco. Solo così un brano cresce, diventa grande».

E per gli altri due dischi quanto ci farai aspettare?
«Stavolta poco, lo prometto».

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