Mark Ronson e il successo di Uptown Funk: l’intervista

Il produttore e dj, che firma con Bruno Mars la canzone del momento, rivela a Sorrisi curiosità inedite sulle origini di Uptown Funk

Mark Ronson  Credit: © Ufficio Stampa Sony
24 Marzo 2015 alle 05:59

Dopo appena tre mesi il 2015 ha già trovato la sua canzone regina: è «Uptown Funk» di Mark Ronson, cantata da Bruno Mars. Quattro minuti di energia pura ai quali è impossibile resistere e che mettono d'accordo tutti, quelli che la musica la trasmettono (è il brano internazionale più suonato dalle radio italiane), la comprano (la scorsa settimana, 439 mila download nel mondo) e la ascoltano online (15 milioni di stream a settimana solo su Spotify, un totale di 399 milioni di visualizzazioni per il video ufficiale su YouTube). «Uptown Funk» ha conquistato anche la vetta della Sorrisi Top Songs, la classifica delle canzoni più popolari della settimana.

Per celebrare questo successo, ormai arrivato ai livelli toccati un anno fa da «Happy» di Pharrell Williams, abbiamo incontrato Mark Ronson, il 40enne produttore/dj anglo-americano che fino a pochi mesi fa era noto soprattutto per aver prodotto «Back to Black», l'album di Amy Winehouse che trionfò ai Grammy nel 2008. «Vengo da un lungo periodo in cui il mio lavoro non è stato apprezzato dal grande pubblico» spiega Mark, che incontriamo in un ristorante di Milano. «Il mio album precedente, "Record Collection", non è andato bene, così come "Out of the Blue", che ho prodotto per Rufus Wainwright. Correvo il rischio di essere ricordato come quello di "Back to Black" e nient'altro. Il successo di "Uptown Funk", invece, mi assicura una longevità che prima era in dubbio».

Come e quando è nata questa canzone?
«La prima volta che abbiamo iniziato a lavorarci eravamo nello studio di Bruno Mars, poco più di un anno fa. L'idea è venuta a lui ascoltando "All gold everything" di Trinidad James. Si è messo alla batteria, io ero al basso, Jeff Bhasker (produttore americano, stretto collaboratore di Kanye West, ndr) alle tastiere, e così è partita una jam session di due ore. Poi è venuto il testo, ma avevamo solo un minuto e mezzo di canzone. In seguito, è stato difficile ricreare l'atmosfera di quella jam, ci riunivamo per completare il brano ma non concludevamo niente».

Sapevi già allora di avere per le mani un «pezzone»?
«Sapevo che quel brano aveva qualcosa di speciale e sarebbe stato il singolo di lancio che avrebbe fatto la differenza. Sapevo che un giorno mi avrebbe permesso di pagare il college ai miei figli. Ci siamo rivisti a Memphis, tra una data e l'altra del tour mondiale di Bruno. Ci siamo chiusi in studio per due giorni, ma è stato inutile. Non ci veniva un ritornello, e poi abbiamo capito che poteva anche non esserci, nel funk in fondo è la regola. Però a questo punto Bruno era sul punto di rinunciare, ma io ho insistito».

Quando è arrivata la svolta che ti ha permesso di completare «Uptown Funk»?
«Mentre era in tour, Bruno continuava a elaborare idee, registrandole in un piccolo studio nel backstage dei concerti. Un giorno gli è venuta l'idea del "doh doh, doh-doh-doh, doh doh", che ti entra subito in testa come un ritornello anche se non lo è. Il resto è venuto da sé, compresa la mia parte di chitarra, per il quale ho sofferto tanto. L'ho rifatta a Londra decine e decine di volte perché Jeff non era mai soddisfatto, sono addirittura collassato durante una pausa. Poi a Toronto mi è venuta perfetta al primo colpo».

Rispetto al successo e ai Grammy di «Back to Black», come stai vivendo questo nuovo trionfo?
«È sicuramente un'emozione diversa. Questo periodo quasi surreale me lo sto godendo di più perchè tutto il successo avuto con "Version" e "Back to Black" io non lo cercavo veramente. Se non fosse stato così grande non mi sarebbe dispiaciuto. A me bastava avere quel minimo di popolarità che mi potesse garantire un futuro nella musica. Ero contento di poter continuare a mettere dischi per 800 persone in un club di Manchester, o cose del genere».

Nell'album «Uptown Special» hai collaborato con Stevie Wonder, in precedenza avevi lavorato con Paul McCartney. Come nascono questi incontri?
«Quasi sempre per una coincidenza. Per esempio, la collaborazione con McCartney è nata perché ho messo i dischi al suo matrimonio. A Stevie non avrei mai osato chiedergli di suonare l'armonica, ma quando ho scritto la melodia non ho resistito, sapevo che era perfetta per il suo stile».

Chi è il prossimo artista nella tua lista dei desideri?
«Se potessi scegliere, la prima persona che mi viene in mente adesso è Miley Cyrus, l'ho vista allo show per il 40° anniversario del "Saturday Night Live" e ho pensato che fosse pazzesca... Con lei potrei fare qualcosa di inaspettato».

Intanto, hai scoperto un nuovo talento, Keyone Starr, che canta «I Can't Lose». Ti ricorda in qualche modo Amy Winehouse?
«Abbiamo iniziato a lavorare su alcune idee per il suo primo album. Non la paragonerei ad Amy, ma è vero che la sua voce ha qualcosa di grezzo che di questi tempi non si sente più nell'r&b». 

Hai già deciso quale sarà il prossimo singolo?
«Sono indeciso tra "Feel Alright" e "I Can't Lose", ma anche "Daffodils" è tra i papabili». 

Pensi che riusciranno a ripetere il successo del primo singolo?
«Come potrebbero? Ma spero che "Uptown Funk" invogli tante persone a scoprire tutto l'album».

Mark è stanchissimo, la sera prima ha fatto le ore piccole mettendo dischi in una festa a Milano. Prima di salutarlo, riusciamo a toglierci una curiosità: «Sei cresciuto in un famoso edificio di Manhattan chiamato San Remo. Hai mai sentito parlare dell'omonimo Festival?». «Vagamente, mi pare che l'edizione di quest'anno ci sia appena stata, vero?». Risposta esatta.

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