Il 3 maggio è il suo compleanno e per l'occasione ha ripercorso tutta la sua vita

La tazzina con il caffè nero e amaro è sul tavolo: non ama prenderlo caldo, allora aspetta che si raffreddi un po’. Massimo Ranieri mette gli auricolari e comincia a passeggiare: «Quando sono al telefono io cammino sempre. Faccio avanti e indietro sul balcone o in giro per casa. Non riesco a stare fermo» ride. Sarà per questo che è così in forma. I 70 anni che compie il 3 maggio sembrano uno scherzo.
Massimo sono davvero una cifra così... tonda?
«A Napoli diciamo “A vecchiaia è ‘na carogna...”».
Su di lei non si direbbe...
«Forse perché sono entusiasta della vita. Sempre, anche in questo periodo orribile che tutti stiamo passando. Domani è sempre un altro giorno e io lo vedo sempre con il sole. E se il sole non non c’è, me lo invento. Come i bambini».
Come festeggerà il suo compleanno?
«Da solo, con una torta al cioccolato nero e una candelina... il giorno dopo invece sarò ospite in tv da Bruno Vespa, che conosco da una vita, e che mi festeggerà: so che ci saranno delle sorprese!».
Quale desiderio esprimerà prima di soffiare sulla candelina?
«Quello di tutti: che passi al più presto questo momento terribile per il mondo intero».
Ma lei in generale i suoi compleanni li festeggia?
«Nì. Nel senso che è vero che sono un traguardo che raggiungi, ma è anche vero che stai invecchiando! E poi sono quasi sempre fuori per lavoro. Per i miei 60 anni ero in teatro: a mia insaputa dei fan mi hanno portato sul palco una torta e tutto il pubblico ha intonato “tanti auguri a te”. È stato bello, ma noi napoletani festeggiamo più l’onomastico».
Lei si chiama Giovanni: c’è ancora qualcuno che la chiama così?
«Solo i miei fratelli. E il 24 giugno, giorno di San Giovanni Battista, arrivano decine di telefonate di auguri: fratelli, sorelle, nipoti, cognati... siamo un esercito! Quando ero bambino eravamo poveri e il compleanno non si poteva festeggiare, ma a volte per l’onomastico c’era un piatto di spaghetti. E a noi sembrava di mangiare caviale!».
Ma un compleanno che ricorda con piacere ci sarà.
«Certo! Quello dei 20 anni. Quattro mesi prima avevo vinto Canzonissima, e proprio con la canzone “Vent’anni”, che è la mia preferita. La canto da 50 anni e ancora oggi mi emoziona, mi ci riconosco, ci vedo il mio passato... è meravigliosa».
A proposito del suo passato, facciamo un gioco. Dividiamo per decenni la sua vita e proviamo a raccontare un momento speciale per ciascun decennio. Le va?
«Come no? Certo sarà difficile tirare fuori un solo ricordo per ogni fase della mia vita, ma ci provo!».
Dal 1951 al 1961, la sua infanzia.
«Sono nato all’ultimo piano di un palazzo in via Pallonetto 51 a Napoli, quartiere Santa Lucia. Sono stati anni belli. Papà Umberto era un uomo di grande onestà, rettitudine, dolcezza. Un grande lavoratore: operaio all’Italsider, si alzava alle 4 di mattina, entrava in fabbrica alle 6, rientrava il pomeriggio, mangiava e alle otto di sera andava a dormire. Guadagnava 25 mila lire al mese. Allora io ero il quinto figlio, ne sarebbero arrivati altri tre. Per tirare avanti lavoravamo tutti. Le mie sorelle facevano le sartine, io a 7 anni ho cominciato a lavorare nelle osterie: portavo il vino ai tavoli. Prendevo 200 lire a settimana. A 9 anni ho iniziato a lavorare da un fruttivendolo, scaricavo le cassette di frutta, qualche sacco di patate. Sacchi piccoli perché ero esile, avevo un fisico “eduardiano”: tutt’ossa e poca carne (ride). Mamma Giuseppina era una donna energica, a casa la chiamavamo la carabiniera. Ci si arrabattava alla meno peggio, lei era quella che doveva far quadrare i conti, il perno attorno a cui girava la famiglia. Con il primo stipendio, a 7 anni, le regalai un fiore di sterlizia, il suo preferito».
Che quartiere era il Santa Lucia?
«Per me bellissimo. Ci conoscevamo tutti. In qualsiasi momento potevi bussare alla porta di un basso: “Abbiate pazienza tenete ‘na cipolla?”. “Tu sei ‘o figlio di Peppina? Tieni, saluta a’ mammà”. Sono ricordi indelebili».
Passiamo al decennio 1961-1971: a 13 anni il suo primo disco come Gianni Rock...
«Sì, ma se devo scegliere un solo momento direi il mio debutto in televisione nel 1966 a “Scala Reale”: divento Ranieri e canto “L’amore è una cosa meravigliosa”».
Come andò?
«Il ricordo più bello è che conobbi, o meglio vidi da vicino, Gianni Morandi. Era il mio idolo, ascoltavo i suoi dischi, era un mito: mi attaccai a lui come un’ostrica. Gli stavo vicino, lo osservavo rapito. Se ci fossero stati i telefonini gli avrei chiesto decine di selfie!».
E lui?
«Lo avrei conosciuto bene solo anni dopo. Allora per lui ero solo uno dei tanti ammiratori».
Siamo al 1971-1981.
«Nel 1972 con “Erba di casa mia” vinsi “Canzonissima”. Vennero anche i miei genitori a Roma, dopo la serata abbiamo brindato con un bicchiere di spumante, loro erano emozionatissimi, commossi, orgogliosi... Poi si rimisero in macchina la sera stessa e tornarono a Napoli. Figuriamoci se si fermavano in albergo: che ne sapevano loro degli alberghi...».
Dal 1981 al 1991?
«C’è la vittoria al Festival di Sanremo nel 1988 con “Perdere l’amore”. Quella sera, dopo aver cantato, ero a cena con il mio gruppo di lavoro al ristorante. La proprietaria mi chiamò e mi disse: “Massimo, c’è una telefonata per te!”. Io sorpreso risposi e qualcuno mi disse: “Torna subito in teatro!”. Insomma, tornai all’Ariston giusto un attimo prima di sentirmi annunciare come vincitore! E ricordo che in quella occasione ebbi la mia prima copertina su Sorrisi! Ero emozionatissimo: io su quella cover ci avevo sempre visto i grandi e ora... c’ero io! Quella copia del giornale la conserva ancora mio fratello maggiore Aniello».
Il decennio 1991-2001?
«Qui scelgo lo show di Raiuno “Siamo tutti invitati: citofonare Calone” nel 2001. Dopo tanti anni tornai a cantare le canzoni napoletane. Erano due puntate ma me ne avevano chieste quattro. Io rifiutai perché pensai: se vanno male, se sono solo due limitiamo i danni. Ma sbagliai, perché il programma andò benissimo».
Ora il 2001-2011.
«Nel 2007 inizio la tournée “Canto perché non so nuotare... da 40 anni”. Da bambino mi buttarono in acqua e rimasi traumatizzato. Fino ai miei 40 anni non ho imparato a nuotare. Che per un napoletano è paradossale, lo so. Nel musical “Barnum” imparai a fare il giocoliere e il funambolo. Un giorno eravamo nella casa al mare e dissi a mio nipote Nico, allora ragazzetto: “Ti insegno a fare il tuffo con il salto mortale per entrare in piscina”. Gli spiegai la tecnica ma lui niente, non riusciva a farlo. Io spazientito gli dissi: “Te lo faccio vedere io”. Mi misi sul bordo della piscina e mi tuffai con il salto mortale. Andai giù, tornai a galla e gli dissi: “Hai capito adesso?”. Lui con gli occhi sbarrati cominciò a urlare: “Nonnaaa, zio Gianni sta nuotando!”. A quel punto mi resi conto di essere nell’acqua alta, mi irrigidii e cominciai ad andare giù urlando: “Stai zitto Nico!”. E così mi sono sbloccato e ho imparato finalmente a nuotare».
I giorni nostri: 2011-2021.
«Mi piace ricordare nel 2020 il disco “Mia ragione”. Questo pezzo è stato una folgorazione. L’ho ascoltato e ho detto: “È mio!”. Proprio come successe con “Perdere l’amore”. E poi c’è stato il mio ritorno a Sanremo dopo 23 anni, come ospite. Sono risalito su quel palco con Tiziano Ferro ed è stato bellissimo. Ma ricordo soprattutto l’emozione di Tiziano prima di cantare insieme. Dopo l’esibizione mi ha detto: “Ho da farti una proposta, ma se non ti va dimmelo pure che non mi offendo. A giugno farò un concerto al San Paolo di Napoli, vieni?”. E io: “Sono già lì”. Ci siamo lasciati con l’idea di rivederci dopo pochi mesi, ma poi si è fermato tutto».
Massimo ha rimpianti o rimorsi?
«L’unico rimpianto è quello di non essermi goduto i miei genitori, sono stato sempre lontano per lavoro. Rimorsi non ne ho. Mi sono sempre comportato come mio padre: con onestà e dignità».
È stata una lunga chiacchierata: a quanti caffè è arrivato nel frattempo?
«Tre tazzine di caffè. E chiacchierando chiacchierando, devo aver passeggiato avanti e indietro per casa e sul balcone per qualche chilometro! (ride)».