Massimo Ranieri si racconta nel libro “Tutti i sogni ancora in volo”

L’infanzia, la musica, il cinema e il teatro: «Ero convinto di non saper recitare. Mi trovò il direttore della fotografia e disse: “Cretino! Sei bravo, torna in scena!”»

Massimo Ranieri  Credit: © Marinetta Saglio
13 Dicembre 2021 alle 11:47

L'occasione della chiacchierata con Massimo Ranieri è l’uscita del suo libro “Tutti i sogni ancora in volo” (citazione dal brano “Perdere l’amore”).

Massimo, cominciamo dalla dedica: a suo padre e a sua madre.
«È successo tutto grazie a loro. Non puoi pensare che un giorno non ci saranno più, li vorresti sempre vicino. Papà se ne è andato vent’anni fa, mamma più di recente. Quanto mi mancano le sue telefonate una dietro l’altra...».

Una dietro l’altra?
«Perché si dimenticava di avermi appena chiamato, poverina. “Gianni (il vero nome di Massimo Ranieri è Giovanni, detto Gianni, ndr), hai mangiato?”. “Sì mammà, gli spaghetti con un po’ di carne”. “Hai mangiato la carne? Bravo”. “Ti sei fatto l’insalata?”. “Sì mammà, pure l’insalata”. “Bene. Guaglio’ riguardati eh?”. “Sì mammà, un bacio”. Mettevo giù e contavo. Uno, due, tre, quattro, cinque...driiin... “Gianni come stai? Hai mangiato?”».

Perché mamma Peppa voleva sentirla vicino.
«Solo quando i genitori non ci sono più capisci cosa sono stati. Mia mamma ci riuniva: quando lei ci chiamava, tutti noi otto figli correvamo a rapporto!».

Infatti era soprannominata “la carabiniera”.
«Già. E non dovevamo mai litigare. “Dovete volervi bene, siete fratelli e sorelle, abbiamo fatto tanti sacrifici per voi e voi siete la vita nostra” si raccomandava sempre. Oggi siamo una famiglia unita ed enorme: ho 21 nipoti, 22 pronipoti e 2 trisnipoti, i figli della figlia di mia sorella».

E papà Umberto che uomo era?
«Avrò avuto 11 anni e il pianista con il quale cantavo ai matrimoni disse a mio padre: “Vostro figlio è nel momento dello sviluppo e rischia di perdere la voce: per un anno deve stare a riposo, senza cantare”. Mamma voleva mandarmi a lavorare. Mio padre, operaio all’Italsider, disse: “Non lo mando a lavorare, a prendere freddo. E se poi sta male? Faccio io gli straordinari”. È stato il mio primo ammiratore, gioiva a vedermi cantare. La prima volta che guadagnai 200 mila lire le prese in mano e gli cedettero le ginocchia per l’emozione».

In 60 anni di carriera e 70 anni di vita quali sono i suoi “sogni ancora in volo”?
«Sono tanti: sgomitano (ride). Ogni tanto allungo la mano nel cassetto e ne pesco uno. Sono tutti belli. Come tre anni fa quando ho tirato fuori Anton Cechov, l’autore che amo di più».

Il più importante tra i sogni che ha realizzato?
«L’esperienza con Giorgio Strehler: apoteosi di bellezza, di crescita, il momento più incredibile della mia vita. Mi sono buttato a capofitto nel suo teatro, ti succhiava l’anima ma sapevo che lui era sotto con una rete e mi avrebbe comunque salvato».

Nel libro parla con sincerità degli errori che ha fatto nella vita: qual è stato il più grande?
«Quello di non aver capito il mio primo vero grande amore. Allora venne fuori uno strano orgoglio che non mi fece comprendere che stavo facendo uno sbaglio».

Dopo la vittoria di “Canzonissima” del 1972 arrivò una crisi.
«Sentivo che non stavo crescendo. Avevo vinto due “Cantagiro”, due “Canzonissima”, avevo venduto 12 milioni di dischi e fatto centinaia di serate: che dovevo fare di più? Io volevo imparare cose nuove. La fortuna ha voluto che incontrassi Mauro Bolognini e Giuseppe Patroni Griffi e ho capito che esistevano altre forme d’arte. Decisi di fermarmi con il canto».

Per il ruolo di “Metello” nel film di Bolognini lei ha soffiato il posto a Jean-Paul Belmondo e Alain Delon...
«Esatto! Quando l’ho saputo camminavo col petto in fuori (ride). Bolognini mi vide in tv al “Cantagiro” e disse: “Metello è lui: chiamatelo!».

Ma il secondo giorno di lavoro lei si chiuse in un ripostiglio a piangere...
«Volevo scappare. Durante la pausa pranzo il direttore della fotografia sentì dei lamenti che provenivano da una porta in fondo alle scale. La aprì e mi trovò in lacrime seduto tra le scope e i secchi... “Non sono nato per parlare e recitare, io sono buono solo a cantare!” dicevo tra i singhiozzi. E lui: “Cretino! Ma cosa dici? Sei bravo e hai una faccia stupenda: torna sul set!”».

Sul set ci è tornato. E pure sul palco del Festival di Sanremo, ma parecchi anni dopo nel 1988.
«Il giovane cantautore Giampiero Artegiani venne a casa mia e mi fece sentire diverse canzoni. Lo ringraziai, gli feci i complimenti e mentre stava andando via si fermò con la mano sulla maniglia della porta e disse che ne aveva ancora una. Io ero stanco, non dormivo da due giorni per una tournée faticosissima e un po’ controvoglia dissi: “va bene”. Lui prese la chitarra e intonò: “E adesso andate via...”. Compresi subito che era un pezzo speciale. Al Festival avrei dovuto portare “Il canto libero del mare”, che pure era un bellissimo brano, ma decisi di cambiare all’ultimo minuto e portai “Perdere l’amore”. Fu una buona idea!».

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