Memo Remigi: «Sono quello che arriva al momento giusto»

Autore, cantante, compositore, attore. Non si è mai fermato. E in questo periodo lo vediamo su Raiuno e su La7

Memo Remigi
14 Maggio 2021 alle 09:36

Buongiorno, come le piace essere chiamato? «Memo! Quando mi chiamano “maestro” mi viene voglia di benedirli. Il maestro e i suoi apostoli». Memo Remigi lo vedi sorridente e spensierato, dall’aria quasi sbarazzina, con le mani perennemente sul pianoforte e lo sguardo che si posa divertito sul mondo. Sempre gentile, mai una parola sopra le righe. Ogni tanto si ripiega dentro un dolore recente, quando si sofferma a parlare della moglie Lucia scomparsa da pochi mesi, ricorda quando erano fidanzati e lei lo accompagnava sulla riviera ligure e con fare pratico gli procacciava le serate nei locali. Passavano così l’estate, tra un piano bar e una pensioncina balneare.

Memo, il 15 febbraio è stato ospite a “Oggi è un altro giorno” su Raiuno e lì è rimasto.
«Mi succede sempre. Tutte le mie fortune in campo lavorativo sono nate da occasioni particolari, mi trovavo al posto giusto nel momento giusto».

Per esempio?
«Una volta ero alla Rai in viale Mazzini e stavo cercando un ufficio, lì ci sono un sacco di corridoi con un sacco di porte. Busso a una, entro e mi trovo un tavolo con delle persone riunite, chiedo scusa immediatamente e me ne vado».

E poi cosa è successo?
«Faccio dieci metri e mi richiamano dentro. Stavano ideando “Bar condicio”, il conduttore era Paolo Guzzanti. Mi dissero: “Avremmo bisogno di un pianista”. Gli ospiti erano dei politici e ognuno chiedeva la canzone del cuore. “Lei sarebbe disponibile?”. Ho accettato molto volentieri».

La persona sbagliata nel posto giusto.
«Ho preso il posto di Umberto Bindi, che non lo avrebbe mai fatto. Io, invece, mi sono sempre adattato alle situazioni che mi hanno offerto, come sto facendo a “Oggi è un altro giorno”. Mi usano come jolly, suono, intervengo, faccio una battuta. Mi avevano offerto una settimana, alla fine credo che resterò fino alla fine della stagione».

Il 27 maggio compie 83 anni. Festeggerà in trasmissione?
«Sì, ma senza la torta con 83 candeline. Non ci stanno tutte nello studio!».

Quando dice la sua età ne va fiero?
«Quando mi dicono: “Lo sa che lei non dimostra la sua età”, io rispondo: “Voi non avete ancora capito, io sono il figlio di Memo Remigi!”. Dico questo e poi mi preoccupo: non vorrei che il crollo avvenisse improvvisamente».

Segue una dieta, fa ginnastica...
«Ho un metodo di sopravvivenza: il salto mortale, un esercizio ginnico, che poi è la ruota. A volte sono a spasso con il mio cane e dico: “Vediamo se reggo ancora”. Ci riesco e mi faccio i complimenti da solo. Continuerò a farlo fin quando diventerà davvero... mortale».

E per la voce?
«Mai fatto niente, non sono di quelli che mangiano le acciughe o fanno i gorgheggi. Ho un dono di natura che mi riconoscono e che è quello dell’intonazione. Sono un musicista autodidatta, suono a orecchio, di conseguenza sono stato molto spontaneo anche nel canto».

Nessun vizio?
«Solo uno, ma quello non riesco più a soddisfarlo. Non è un vizio, ma mi ha portato un po’ di guai, non irreparabili: non ho mai creato seconde famiglie e mai messo al mondo figli con altre donne».

Era il fascino dello chansonnier meneghino che intrigava le donne?
«Quello lo usavo per acchiappare. Partivo con il mio “Io ti darò di più” e le donne mi sfidavano: “Voglio vedere se sei all’altezza della canzone”».

Ha avuto paura del Covid?
«Onestamente no, perché non amo andare in mezzo agli amici, trovarsi e socializzare. Sto vivendo un periodo strano della mia vita, ho perso mia moglie Lucia in gennaio, è stata una cosa terribile. Ora dopo quattro mesi sono convinto che lei ci sia ancora, che sia solo partita per uno dei suoi tanti viaggi».

Invece del palco ha mai avuto paura?
«Mai, perché il palco l’ho affrontato per anni. Ogni volta che salivo sulla pedana di un night con l’orchestra, era un palco. La gente ascoltava le canzoni, raccontavi delle cose, facevi spettacolo. Io ho sempre cercato di non essere solo un cantante: se non cantavo suonavo, se non suonavo scrivevo canzoni per altri, se non scrivevo conducevo».

Però il successo è arrivato subito con la prima canzone, “Innamorati a Milano” nel 1965.
«Partecipai a “Un disco per l’estate”, il pubblico votava con delle cartoline. La mia casa discografica non aveva molte possibilità di comprare le cartoline e il pezzo non arrivò neanche in finale. Ma diventò un classico grazie alle orchestre che cominciarono a suonarlo e ai jazzisti che lo trovarono particolarmente adatto perché aveva un bel giro armonico».

È rimasto il suo maggior successo?
«Penso che sia diventata una canzone-simbolo. Il mio mentore era stato Giovanni D’Anzi, famoso autore di “O mia bela Madunina”. Quando l’ascoltò mi disse: “Dopo la Madunìn se parlerà de ‘sta canzùn chì, questa chì l’è bela”».

Come diventò il suo mentore?
«Ero ai bagni Helios a Santa Margherita Ligure, ero ancora un ragazzino, non avendo una chitarra invitavo le ragazze nel salone di un albergo vicino, mi mettevo al piano e dicevo: “Ho composto una canzone per te”. Una mattina D’Anzi era nel salone a bere il caffè e leggere il giornale, mi sentì fare una di queste canzoni e mi chiese: “L’hai scritta tu?”».

E iniziò la sua carriera artistica.
«Avevo meno di vent’anni, il mio papà era un industrialotto brianzolo, si occupava di torcitura di filati, quando lui rientrava dal lavoro e io dal collegio Gallio di Como suonavamo e cantavamo insieme le canzoni della sua epoca, come la canzone del minatore sepolto nella miniera, cose strazianti. Probabilmente la musica l’avrei tenuta per hobby se non avessi incontrato D’Anzi».

Qual è la canzone che ama di più?
«“La notte dell’addio”. Doveva cantarla Mina a Sanremo nel 1966, ma alla casa discografica decisero che doveva farla Iva Zanicchi. Allora c’era molta rivalità fra l’Aquila di Ligonchio (Iva), la Pantera di Goro (Milva) e la Tigre di Cremona (Mina). Mina sarebbe stata più adatta».

Il 1966 fu anche l’anno dell’altro suo brano famoso, “Io ti darò di più”.
«Quel pezzo era nato per Ornella Vanoni. Allora a Sanremo il brano si cantava in coppia, in due versioni, Gianni Ravera mi disse che doveva sistemare Orietta Berti, che lo cantò al posto mio. Il pezzo è ancora uno dei cavalli di battaglia di Orietta, la Vanoni, invece, non l’ha più cantato, per lei è troppo popolare».

Lei è stato a Sanremo tre volte, poi non ci ha più pensato?
«No, “ci ho più pensato”, ma non avevo più una casa discografica, non si lavorava più come prima. Un tempo c’era un entusiasmo diverso intorno alla musica leggera, si scrivevano canzoni, si facevano ascoltare, si andava a casa dell’interprete. Sono successe tante altre cose, ho fatto radio, programmi tv, teatro».

Dei tanti artisti con cui ha lavorato con chi è rimasto amico?
«L’amicizia difficilmente riesci a coltivarla con persone che fanno il tuo stesso mestiere, ognuno ha la propria attività, ci sono incontri, si va a mangiare insieme, ma la frequentazione è difficile».

Ha lavorato con tanti nomi importanti.
«Alberto Testa, il paroliere, era un grandissimo amico. Ero anche amico di Fred Bongusto, noi eravamo quelli dei night. C’erano night che tenevano addirittura due orchestre, a una determinata ora smetteva una e cominciava l’altra».

E della televisione?
«Con Alberto Castagna abbiamo fatto insieme “Mattina 2”. Lui arrivava dal giornalismo, era sempre tutto serio, e io gli dicevo: “Alberto, devi essere più sorridente e comunicativo, hai questi bei baffoni, sei un bel ragazzo”, e gli insegnavo i trucchi per essere coinvolgente».

Com’è finito negli ultimi anni a “Propaganda Live” su La7?
«Mi avevano chiamato per cantare “Innamorati a Milano”, tanto per cambiare. In studio sono successe improvvisamente delle gag con Zoro e hanno visto che ero uno abbastanza sveglio, non ero solo il Memo Remigi con la camicia e la cravatta che canta».

Le hanno fatto fare scherzi telefonici, citofonare alle persone...
«Perché io sto al gioco. Lì quando si fanno le riunioni e metti sul piatto delle idee la risposta è: “Questo fa’ ride” o “Questo nun fa’ ride”. Qualche puntata fa abbiamo fatto lo sketch con me che andavo a fare il vaccino del Covid, mi sono inventato che avevo l’agofobia, se vedevo un ago svenivo. Il medico mi ha detto: “A Remì, devi sta’ tranquillo”».

L’ironia è la sua dote migliore?
«Sicuramente, anche perché onestamente mi reputo una persona fortunata innanzitutto perché ho la salute e io cerco di contraccambiare questo dono essendo allegro, spiritoso, divertente».

Le hanno mai offerto un reality?
«No, però recentemente ho fatto la parte del papà di Claudio Bisio in un film di Fausto Brizzi, “Se mi vuoi bene”. Fiction niente, perché sono troppo giovane (sorride)».

Un talent tipo “Ballando con le stelle”?
«L’anno scorso Milly Carlucci disse che mi avrebbe chiamato, l’aveva detto anche due anni fa: “Sei il primo della lista”. Vediamo. Nel mio piccolo mi muovo ancora abbastanza bene».

Ma qualcuno la chiama mai con il suo vero nome, Emidio?
«Nessuno. È un nome impegnativo, viene dal greco, “semidio”. Era del nonno paterno, il fondatore della torcitura di filati brianzola. Non ho ancora capito quale sia la mia metà divina».

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