Il rapper romano firma la sigla della prima serie italiana prodotta da Netflix e distribuita in 190 paesi: «Non sapevo neppure che ne esistessero così tanti!»

Il rapper Piotta, al secolo Tommaso Zanello, le dieci puntate di «Suburra», prequel dell'acclamato e omonimo film di Stefano Sollima e prima serie italiana prodotta da Netflix, se le è “sparate” tutte di seguito. Era troppo curioso di vedere come suonava la sua «7 Vizi Capitale», scelta come sigla.
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7 Vizi Capitale
Piotta hai fatto il colpaccio: ascolteranno la tua canzone nei 190 paesi in cui Netflix è presente.
«Quando me l'hanno detto mi sono stupito: 190 paesi? Non sapevo neppure che ce ne fossero così tanti! Scherzi a parte, sono molto contento e per l'ennesima volta stupito della magia della musica. Gli americani ci saranno abituati, ma una sigla italiana in giro per il mondo non è normale, il nostro mondo di solito si ferma a Lugano».
«7 Vizi Capitale», eseguita con il gruppo romano Muro del Canto, non è un inedito, fa parte del suo ultimo album «Nemici» del 2015.
«Già, ma chi non lo sa pensa che io l'abbia scritto appositamente per la serie. Gli autori mi hanno confidato che hanno ascoltato la canzone anche in fase di scrittura, che li ha in qualche modo ispirati».
Nei tuoi brani c'é sempre tanta Roma...
«Sì, e ho sempre cercato di essere fedele alla contemporaneità. Le canzoni degli inizi erano più ironiche, ma credo che Roma sia cambiata e oggi ci sia meno da scherzarci sopra, la visione è diventata più amara, più scura. Oggi Roma va raccontata con toni notturni, crepuscolari, più arrabbiati. Il clima è più esasperato».
Ora il pubblico “pop” dirà che è tornato Piotta. Invece, a far due conti, sono quasi vent'anni di carriera.
«Eh sì, il primo album “Comunque vada sarà un successo” era del '98. Il tempo passa veloce. Io però, per mia attitudine guardo sempre a quello che verrà».
Supercafone
Nel 1998 eri considerato il miglior rapper italiano. L'anno dopo hai commesso un “crimine” imperdonabile per chi viene dall'underground: «Supercafone» ha avuto un enorme successo.
«I la vedo così: il rap, all'epoca era quasi sconosciuto al grande pubblico. Eravamo in pochi a farlo. Io a Roma, Alessandro (J-Ax ndr) a Milano, Francesco (Frankie Hi-Nrg-Mc) a Torino. Ci guardavano come alieni. Ci sono state incomprensioni, anche interne alla scena. I giornalisti fraintesero la componente giocosa e ironica di quel brano e lo analizzarono col metro “Premio Tenco”. Forse non tutti, all'epoca avevano i mezzi per decodificarne il linguaggio. Il paradosso è che “Supercafone” era un brano che esisteva dal '95 nella sua versione più hardcore. Gli ingredienti di quella canzone, se ci pensi, erano molto strani, era bella ... marcia».
E così dal disco di platino sei ripartito dall'underground
«Sì, mi sono richiuso nel mio mondo e sono ripartito dalla "Grande Onda" in poi, il brano che più mi rappresenta, passando per Sanremo, fino a mettere il rap insieme agli strumenti suonati. Un percorso che ha dato i suoi frutti, lentamente ma l'ha fatto. "7 Vizi Capitale" è la ciliegina sulla torta, ma la preparazione della torta parte da lontano».
La Grande Onda
Oggi circola tanto rap. Troppo?
«Non lo so, non giudico. Prendo atto che è così, ma la magia del rap è che esso è tutto e il suo contrario. Chi oggi lo sta rinnovando domani sarà il più criticato. L'hip hop è legato alle mode, ma tenta anche di cambiarle, esplora suoni nuovi e rimane fedele alla tradizione. L'assunto fondamentale, però, è raccontare il nostro quotidiano. Per questo funziona tanto».
Fabri Fibra si chiede se a 40 anni valga ancora la pena rappare.
«Ne vale la pena fino all'ultimo giorno della tua vita. L'errore è pensare l'hip hop come una cosa per ragazzini. L'hip hop ha 40 anni! L'importante è farlo nel rispetto della propria età, non bluffare, non far finta di avere 20 anni. Altrimenti diventi una barzelletta. Non è un fatto di età ma di attitudine».