Niccolò Fabi ci racconta “Meno per meno”, album dove rivisita anche i brani del passato

Non un’antologia, non un live, ma un album che raccoglie alcuni tra i brani proposti in concerto all’Arena e quattro canzoni nuove

2 Dicembre 2022 alle 08:17

Venticinque anni di carriera sono un traguardo importante. Niccolò Fabi, uno dei nostri cantautori più schivi, li celebra con “Meno per meno”, un progetto che definisce inusuale. Non un’antologia classica, non un live, ma un album che raccoglie alcuni tra i brani proposti il 2 ottobre in concerto all’Arena di Verona e quattro canzoni nuove.

Tra queste, “Andare oltre”, uscita come singolo in estate, e “Di aratro e di arena”, una sorta di manifesto che chiudeva il concerto veronese, pubblicata subito dopo lo show. Dentro c’è un accurato lavoro di orchestrazione e di riscrittura, insieme al Maestro Enrico Melozzi e la sua Orchestra Notturna Clandestina: «È un album particolare, “di servizio” direi, anche se ovviamente non rappresenta un capitolo nuovo al cento per cento della mia discografia» ci spiega Fabi. «Credo che l’apporto di un’orchestra abbia fatto bene, da un punto di vista emotivo, a brani di alcuni anni fa, anche se non è stato semplice dare una coerenza di suono a canzoni concepite in momenti così diversi della mia vita».

Meritano un ascolto attento il nuovo singolo “Al di fuori dell’amore”, che si interroga su quanti di noi facciano la vita che hanno scelto, e l’intensa “L’uomo che rimane al buio”.

Lo hai definito un album inusuale.
«Sì, perché non è un greatest hits. A parte “Costruire”, diventato col tempo un pezzo classico del mio repertorio, le canzoni sono state scelte pensando a come potessero permettere a Melotti di orchestrarle al meglio».

Perché quel titolo?
«Fa riferimento a una delle prime nozioni matematiche che apprendiamo a scuola per cui meno per meno fa più, ovvero due numeri negativi moltiplicati tra loro ne danno uno positivo. Ho pensato che rappresentasse, nel corso degli anni, la musica che scrivo. Portare la gente attraverso la mia musica in un mondo malinconico, facendo sì che desse un risultato positivo. Far sì che la gente uscisse dall'ascolto di un disco o di un concerto confortata perché si si riconosceva in quel tipo di malinconie. Come dire: una lacrima per una lacrima può fare un sorriso. Non bisogna aver paura di avere i propri momenti di difficoltà ed è proprio in quei momenti che la musica ti può venire in aiuto. E non intendo solo distraendoti col reggaeton, ma anche facendoti rivivere il motivo per cui sei triste. È come una bevanda calda che ti fa sudare e alla fine di questa grande sudata stai meglio tiri fuori le tue tossine».

La parola bilancio non ti piace. Facciamo allora una riflessione su questi 25 anni di carriera
«Sono contento. Per un autore come me, che ha improntato la sua ricerca in una direzione non maliziosa, senza cercare la luce dei riflettori a tutti i costi, uscendo dal radar della grande comunicazione mediatica e utilizzando i social in maniera distaccata e minima, un concerto come quello di Verona, con 10.000 persone che ti accolgono in quel modo, è il segnale che quello che ho seminato in questi 25 anni è qualcosa di solido, di importante. Il riconoscimento che io speravo di avere: non quello della popolarità, che m'imbarazza e mi avrebbe costretto a fare una vita anche diversa. Ho fatto assomigliare la mia vita professionale al mio carattere».

Esistono ancora i cantautori, intesi come categoria intellettuale?
«Se definiamo cantautore chi racconta il suo tempo con un linguaggio per così dire letterario… beh, adesso è fuori da qualunque attrazione mediatica. Allo stesso tempo, però, si può essere narratori della realtà con linguaggi diversi. Gazelle o Franco 126, per esempio, hanno un linguaggio contemporaneo. La musica sarà sempre testimone del suo tempo. Certo, viviamo un tempo in cui l'informazione è superficiale, il linguaggio si restringe ed è normale che anche la canzone lo rifletta: c'è un modo di raccontare la realtà che è molto stringato, da social. La contemporaneità è più legata al linguaggio della strada. Lo si potrebbe considerare un limite, ma artisticamente è anche la sua forza».

Tuo padre è stato il produttore di tanti grandi artisti. In che modo questo ti ha influenzato?
«Sono andato via da casa presto, ma nei periodi che passavo con lui, mio padre mi portava in giro ai concerti. Un backstage per me era un luogo normale. Quello che mi è rimasto impresso è che, per fortuna, l'ho sempre sentito parlare coi musicisti in una maniera molto artistica. Erano i primi anni 80 e il mercato non si era ancora impadronito di tutto. Si confrontava con tipi come Battisti, Paolo Conte, la Pfm, sentivo quel tipo di temperatura. Non l'ho mai sentito dire “Dobbiamo fare il singolo per le radio».

Rivedremo mai la superband Fabi, Gazzè, Silvestri?
«È stata una magia difficilmente ripetibile e ammetto che sono il più integralista dei tre sul progetto. Quello è stato un viaggio insieme di due anni in furgone, solo noi tre con gli strumenti. Un viaggio di solidarietà in Africa, ritrovarsi a scrivere il disco insieme nelle casette di campagna… Certo, ci potrebbe essere un altra occasione per cantare insieme, non abbiamo litigato, ma non sarebbe possibile tentare di replicare una cosa come quella. Io non vado mai in vacanza due volte nello stesso posto, anche se l'ho amato tanto: la meraviglia sta nella sorpresa. Oggi ci sarebbero solo aspettative e l'aspettativa è contro la meraviglia».

Seguici