Nino D’Angelo: «Un bel giorno decisero che ero intelligente…»

L’artista illustra il suo nuovo progetto “Il poeta che non sa parlare”: è un disco, ma anche un libro autobiografico

Nino D'Angelo
4 Novembre 2021 alle 09:00

Gaetano D’Angelo, per tutti Nino, cantautore, attore, sceneggiatore e regista, rappresenta un caso unico nella canzone italiana. Dalla sceneggiata napoletana (erede designato di Mario Merola) alla rottura con la tradizione in favore di un pop partenopeo che fu ribattezzato “neomelodico” e che gli ha dato un successo enorme. Poi, il cinema, con una lunga serie di “musicarelli” tratti dalle sue canzoni e campioni d’incasso.

Quindi la maturazione, l’incontro con una World Music personale e consapevole, numerose presenze al Festival di Sanremo sempre apprezzate dalla critica (l’ultima nel 2019), album di peso come “Terranera”, la riscoperta da parte del cinema d’autore, da Roberta Torre a Pupi Avati, e una nuova valorizzazione che lui sintetizza con schietto candore: «A un certo punto hanno deciso che ero intelligente».

Ora Nino si racconta in un progetto, “Il poeta che non sa parlare”, fatto di un nuovo album d’inediti, con ospiti d’eccezione come Tony Servillo, James Senese e Rocco Hunt, e di un libro che ripercorre con tono leggero il suo lungo viaggio: dalla miseria vera al successo, dall’emarginazione dalla scena musicale al “salotto buono”. In attesa del suo prossimo tour in partenza il 3 marzo, lo abbiamo intervistato.

Ha definito questo progetto come «un voler ricominciare, una ricerca della normalità e la voglia di sconfiggere la provvisorietà della vita».
«Sì. Durante il periodo più duro della pandemia mi veniva difficile scrivere. Non avevo la testa per le canzoni: l’effetto che ha fatto a me penso l’abbia fatto anche ad altri. Non uscivo proprio di casa. Quando, però, ho visto che Jorit, un grande street artist che ha realizzato opere in onore di Maradona e di Che Guevara, mi ha dedicato un suo lavoro, proprio nel quartiere dove sono nato, mi è tornata la gioia di vivere. Ho pensato che meritasse un disco nuovo».

L’unico brano non inedito, “Ammore è dà”, è cantato con otto artisti napoletani. Come li ha scelti?
«Io scelgo il talento. Questi sono quelli che c’azzeccavano con questo brano. Perché oggi si parla sempre di cantanti neomelodici, ma ‘o cantante napulitano ‘nce sta cchiu! Tutto è diventato un calderone, chiunque canti in napoletano è un neomelodico».

Un po’ è colpa sua. Il neomelodico l’ha inventato lei.
«Alt: vero è che i neomelodici nascono da una costola di Nino D’Angelo, ma poi la cosa è degenerata. Io ho cominciato da ragazzino. Facevo le sceneggiate, Mario Merola mi aveva indicato come il suo erede e per me era una responsabilità troppo grande. Allora ho deciso di cambiare proprio genere. Diciamo che io alla canzone napoletana ho fatto tanto bene e tanto male, ai tempi del mio caschetto biondo. Del bene, perché la mia è stata comunque una rivoluzione: una rivoluzione popolare. E ho fatto del male, perché ho generato tanti imitatori non proprio all’altezza».

Il brano “Chillo è comm’ ‘a te’”, che ospita il rapper Rocco Hunt, parla di razzismo.
«Già. Un giorno in un parcheggio ho incontrato un ragazzo di colore, figlio di un africano e di una napoletana, che parlava dialetto stretto e mi chiamava “Aità” (ossia Gaetano, ndr). Mi ha fatto riflettere. Era napulitano, comm’ a me. Oggi mi piace anche cantare il mio pensiero e quello è un pezzo che parla di come il colore della pelle non può cambiare la tua percezione delle persone».

Un razzismo, ma di tipo “culturale”, lo ha subito anche lei.
«Più che altro direi snobismo. L’ho vissuto eccome, e per fortuna l’ho superato da molti anni. Ho suonato con Francesco De Gregori, Pino Daniele e Lucio Dalla, che mi voleva sempre con sé quando era a Napoli. Ho vinto il David di Donatello, sono stato a Cannes con Pupi Avati... Ma non rinnego niente. Quelli di “‘Nu jeans e ‘na maglietta” (1982, ndr) sono stati anni straordinari... Io vengo da un altro mondo, quello del popolo, della gente. Grazie a quel caschetto ho potuto comprare casa ai miei genitori, far sposare le mie sorelle. Jorit mi ha dipinto col caschetto: io sono quello là che è cresciuto. Siamo nati per crescere ed evolverci».

Come è stato gestire il successo?
«Io vengo da una famiglia molto povera, ma della povertà ho conosciuto anche il senso di comunità, la condivisione. Grazie a Dio sono cresciuto anche con dei valori. Ho sposato la ragazza (Annamaria, ndr) che ho conosciuto a 15 anni. Abbiamo creato una famiglia e quando è arrivato il successo si è occupata lei di gestire tutto. È stata brava. I nostri figli hanno studiato, abbiamo dato loro quell’istruzione che è mancata a noi: mio papà aveva la seconda elementare, mia mamma la terza. Oggi, quando vado nei quartieri, ai bambini dico che la scuola è importante, però bisogna fare in modo che questo diritto alla scuola sia reale, alla portata di tutti. Anche di chi non tiene i soldi per comprare i libri. Perché forse è vero che con la cultura non si mangia, però si cresce».

Come è cresciuto Nino D’Angelo?
«Di botto, dopo la morte di mia madre. Ero un Nino D’Angelo diverso. Scrivevo per me. Non erano canzoni scritte a tavolino. Certo, quando cominci a parlare dei problemi, la gente non sempre li vuole sentire. Soprattutto da uno come me, considerato un cantante leggero. Ho perso i numeri, ma ho guadagnato in valutazione».

Pino Daniele aveva voluto lei e Gigi D’Alessio con sé nel 2008 nel grande concerto di piazza Plebiscito a Napoli. A sorpresa, però, non eravate tra gli artisti sul palco nel concerto tributo per Pino del 2018. Che cosa è successo?
«Ce lo siamo chiesti tanto. Ma questa cosa ci ha uniti. Ci ha fatto superare vecchie rivalità e piccoli screzi, al punto che è nato il tour “Figli di un re minore”. Con Pino c’era un rapporto vero. Ricordo ancora la sua telefonata a Sanremo nel 1999 quando cantai “Senza giacca e cravatta”. Mi disse: “Bravo, così ti voglio sentire, tu questo devi fare”».

In un suo pezzo del 1991, “Chicco di caffè”, suonò anche il leggendario tastierista Billy Preston.
«Aveva sentito le mie canzoni a casa di Miles Davis e quando è venuto in Italia mi ha voluto conoscere. Abbiamo pure suonato dal vivo. T’immagini? Chille era ‘o quinto Beatles!».

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