Paul McCartney: «Io, Lennon e i Beatles: vi racconto tutto di noi»

Il cantante inglese ha presentato, in una serata speciale a Londra, un libro con tantissimi aneddoti di vita e musica

Paul McCartney
10 Gennaio 2022 alle 08:21

Paul McCartney è tornato “dal vivo”. Al Southbank Centre di Londra ha presentato il suo libro in due volumi “The Lyrics. Parole e ricordi dal 1956 a oggi”, che Rizzoli ha pubblicato anche in Italia (912 pagine, 65 euro). Sir Paul non ha suonato, ma la musica era sul palcoscenico con lui: nei ricordi, nelle battute, nelle considerazioni di un ragazzino di Liverpool che ha fatto… Beh, sappiamo tutti chi è.

Tra le 1.027 canzoni che ha scritto (tra queste ce ne sono 277 ancora inedite: i dati vengono da Luca Perasi, uno dei massimi esperti mondiali di “Macca”, autore dell'ottima traduzione del libro con Franco Zanetti, Beatles-ologo d'oro), McCartney ne ha scelte e commentate 154, stimolato dal poeta irlandese Paul Muldoon; ogni testo, poi, è stato arricchito da immagini eccezionali provenienti dall'archivio pressochè infinito dell'artista. Sorrisi ha partecipato alla serata, e questo è ciò che Paul ha raccontato.

Ricordi a sorpresa

«Rileggendo quei testi (dovrei parlare di “manoscritti”, lo so, ma per me è un parolone e preferisco parlare di parole su un pezzo di carta) è stato bello vedere le varie cancellature, le sostituzioni fatte nella costante speranza di migliorare le cose… Tenete presente che il mio archivio contiene anche materiale di cui non ho alcuna memoria, e anche per questo il lavoro è stato molto affascinante. Per esempio, a un certo punto ho spiegato a Paul Muldoon che, ancora prima che nascessero i Beatles, io e John (eravamo a casa mia) decidemmo di scrivere un testo teatrale… Magari lo sapete, perchè di questa cosa avrò parlato per un milione di anni… Insomma, stavamo guardando i materiali e i ragazzi dell'archivio (“ragazzi”… Sono poi io che li chiamo così, perché sono degli adulti…) mi dicono: “E di questo che ne dici? È forte, potremmo usarlo… Ma che cos'è?”. E io “Cavolo, è la commedia!”. Era proprio quella cosina che John e io avevamo cercato di scrivere. Ci eravamo fermati a pagina 4».

Un professore fondamentale

«Il nostro professore di Lettere al Liverpool Institute High School for Boys si chiamava Alan Durband. Era un grande. Lui vedeva bene chi aveva davanti, in classe: per dire, io ero un adolescente di Liverpool senza alcun interesse per la letteratura inglese, il tipo che andava avanti a colpi di “Eh, va bene, dai, sai, grande!”. Durband, però, doveva prepararci a superare un paio di esami, così si presentò in classe con “I racconti di Canterbury” di Geoffrey Chaucer e iniziò a leggere, credo, “Il racconto della madre priora” in questo inglese quattrocentesco… Era incomprensibile… Noi lo fermammo subito: “Ehm, signore, ci scusi, forse sta scherzando?”. E così tirò fuori un altro libro che aveva il testo a fronte in inglese “normale” e così anche noi leggemmo Chaucer. Alan, poi, fu molto intelligente con me. Mi prese da una parte e mi disse: “Tu dovresti leggere «Il racconto del mugnaio»…”. Io accettai, lo lessi e mi accorsi che era un po' “sporcaccione”, il che ovviamente mi piacque molto: ero pur sempre un adolescente di Liverpool! Insomma, così Durband riuscì a catturare la mia attenzione e da lì mi agganciò in ogni cosa facesse».

La famiglia

«Sono stato fortunato, perché ho avuto un'ottima famiglia. All'epoca pensavo che tutti avessero una buona famiglia alle spalle, che tutti crescessero come crescevo io; invecchiando, però, ho capito che tantissime persone hanno famiglie orribili o hanno vissuto momenti terribili. Io comunque sono stato molto fortunato. Il punto più alto dell'anno era la festa di capodanno, quando mio padre suonava il pianoforte per tutti. Si riuniva la famiglia intera, zii e zie, cugini, bambini, tutti… Era una grande festa e mio padre suonava tutte le vecchie canzoni, cioè quelle che sono vecchie ora, ma all'epoca non dovevano essere poi così vecchie… Le zie le conoscevano tutte (come facessero, poi, è un'altra storia, un po' lunga…) e cantavano. Per noi bambini era bellissimo sentire papà suonare… È così che io mi sono appassionato alla musica, e visto che mio padre ogni tanto suonava in casa, sentivo gli accordi, sentivo la musica… Poi ascoltavo molto la radio, e tutto questo mi si è mescolato dentro, sicché, quando ho iniziato a pensare di scrivere canzoni, avevo già molta musica dentro di me».

John fu il primo che mi capì

«È sempre affrontare la questione della “canzone migliore che hai scritto”. Per esempio, però, io penso ancora che “I saw her standing there” sia molto buona, perché porta con sé molti bei ricordi. Nel libro “The Lyrics” c'è questa foto in cui sto suonando con John Lennon: siamo ancora ragazzini e penso che sia stata fatta proprio il giorno in cui gli cantai “I saw her standing there” per la prima volta. John fu la prima persona al mondo che, quando gli confidai che avevo scritto un paio di canzoni, non mi rispose “Bene, ma adesso però parliamo di calcio”: lui disse “Anch'io”. Così ci trovammo, e probabilmente la nostra collaborazione iniziò quando gli suonai quel pezzo, forse la prima cosa che abbiamo fatto insieme è stata l'attacco di “I saw her standing there”. Io iniziai a cantare “Well, she was just 17, she had never been a beauty queen” (“Aveva appena 17 anni e non era mai stata una reginetta di bellezza”), e poi lo guardai con uno sguardo un po' interrogativo… Lui mi guardò strano… E lì io capii che dovevamo trovare qualcosa da mettere al posto di “beauty queen”, perché non reggeva. E tirammo fuori “Well, she was just 17, you know what I mean” (“Aveva appena 17 anni, hai capito cosa voglio dire?”), che credo funzioni molto meglio. Anche se molti anni dopo, a un evento, il comico americano Jerry Seinfeld ci ha fatto ridere tutti dicendo: “Paul, hai presente la tua canzone? Sai che non siamo esattamente certi di cosa volessi dire?”».

Paul e John, due ragazzi allo specchio

«(Il fatto che io fossi mancino e John fosse “destro”, ndr) è stata una delle piccole grandi cose fortunate che ci sono capitate, ma a cui non abbiamo mai minimamente pensato. Quando ci sedevamo uno di fronte all'altro, le nostre chitarre non sbattevano l'una con l'altra, ed era lo stesso anche sul palcoscenico, anche quando condividevo il microfono con George Harrison… E invece mi capita spesso di vedere chitarristi che chiaramente devono stare attenti a non far scontrare le chitarre. Detto questo, man mano che andavamo avanti a scrivere canzoni, magari io suggerivo un verso e John ne suggeriva un altro, e abbiamo lavorato moltissimo così, come se giocassimo a ping pong… E, visto appunto che lui era “destro”, io lo guardavo come se stessi guardando me stesso allo specchio: potevo vedere esattamente quel che facevo».

Lavorare insieme, crescere insieme

«Lavorare con John era bellissimo. È stato bellissimo fin da quella volta in cui mi disse “Anche io scrivo canzoni”. Abbiamo sviluppato un modo per lavorare insieme, per avere fiducia l'uno nell'altro, che è via via cresciuto. Per dire, quando ha sentito che volevo iniziare fare cose del genere “Eleanor Rigby”, lui ha fatto lo stesso. Siamo cresciuti insieme. È stato come salire uno scalone uno di fianco all'altro, ed è stato eccitante. Ora che la storia “creativa” dei Beatles è finita, io sono come un fan e mi ricordo quanto fosse bello lavorare con John, e di quanto fosse grande lui. Perché qui non è che parliamo di boiate, di cantare con un Pinco Pallino qualunque: quando canti con John Lennon non ce n'è per nessuno!».

Quello che non gli ho mai detto

(Paul Muldoon accenna a un riavvicinamento tra McCartney e Lennon negli ultimi anni di vita di John, ndr): «È vero, sì… Tu poi dici che gli ho voluto bene davvero… Ma sai, tra ragazzini di 16, 17 anni a Liverpool, non è che ci si dicano cose del genere “Ehi, John, amico mio, ti voglio bene”. Non ce l'ho mai fatta a dirgli una cosa così».

“Siamo più popolari di Gesù”

«La situazione era questa: noi quattro Beatles contro il mondo. Ci ficcavamo in situazioni assurde e potevamo contare solo su noi stessi. (La polemica scatenata nel 1966 da una frase di John Lennon, “Siamo più popolari di Gesù”, ndr) fu una cosa terribile. John disse questa cosa in un'intervista con Maureen Cleave dell'“Evening Standard” di Londra. Era un articolo molto serio, in cui lui parlava anche di religione e di chiese, e di come certe chiese fossero in un periodo di crisi, il che un po' ci dispiaceva perché la “congregazione” dei Beatles era invece bella solida. Noi eravamo “l'altra strada”, insomma, e io penso che John stesse cercando di suggerire alle varie chiese di fare qualcosa che piacesse un pochino di più alla gente… È una cosa che ha funzionato, per esempio, quando hanno iniziato a far suonare le chitarre durante le messe… Quando John disse “Siamo più popolari di Gesù” intendeva questo, ma è chiaro che se isoli queste parole lasci tutti a bocca aperta».

La franchezza dei Beatles

«Uno vorrebbe poter dire sempre solo la verità, ma deve ricordare che chi dice solo la verità viene poi puntualmente abbattuto. La prima volta che siamo andati in America ci hanno detto: “Qualunque cosa succeda, voi non parlate della guerra in Vietnam”… E noi come prima cosa abbiamo detto “E allora, questa guerra in Vietnam?”. Bisogna sempre misurare il livello di verità che puoi permetterti, e anche se noi volevamo essere molto onesti perché sapevamo che i nostri fan erano più o meno come noi, abbiamo comunque dovuto anche controllarci un po'».

L'importanza degli autobus

«Ora che me lo fate notare, è vero che in tante mie canzoni parlo di autobus… Recentemente ne ho parlato anche a mio nipote. Doveva scrivere un saggio per l'università e voleva parlare della rivoluzione culturale in Gran Bretagna negli Anni 60, e così mi sono messo lì a raccontargli di Liverpool. Insomma, era tutto un “Ho conosciuto George sull'autobus, ho visto John per la prima volta su un autobus, George fece la sua audizione sull'autobus, in autobus attraversammo la città per andare a farci insegnare il Si7 da un tizio”… Insomma c'era un milione di storie che avevano a che fare con gli autobus. Lui, molto intelligentemente, ha approfondito la cosa e ha evidenziato l'importanza di una legge sul trasporto pubblico che dopo la II Guerra mondiale diede a Liverpool questa eccezionale rete di autobus. Finalmente potevi andare dappertutto! Se volevo vedere John, me ne uscivo di casa e da Forthlin Road arrivavo da lui facendo un solo cambio di bus. Mio nipote ha unito questa novità con quella portata da un'altra legge che permetteva l'accesso alle scuole di maggior qualità anche a bambini che, come me, non venivano da quartieri “bene”, e credo che così abbia potuto sostenere nel suo saggio il fatto che un fattore chiave nella “rivoluzione culturale” sia stato potersi muovere di più e poter ricevere un'educazione migliore».

Un sogno e nacque “Let it be”

«“Let it be” è nata da un sogno. Avevo perso mia madre da una decina d'anni, tragicamente. Se n'era andata per un tumore al seno. Al tempo non si parlava di queste cose: una persona moriva e chi rimaneva doveva farsi passare il dolore in silenzio, andare avanti e basta. Non c'erano psicoterapeuti… Così fu meraviglioso incontrarla in sogno. Eravamo in una stanza, in totale serenità, e ho iniziato a parlarle. Sembrava che sapesse che c'era qualcosa che mi preoccupava e mi scaldò il cuore. Del resto era un'infermiera, sapeva come dire cose del genere “Andrà tutto bene e così sia”. Così mi sono svegliato felice e ho pensato: “Così sia, let it be… Questo è un gran titolo!”».

Fame di rock

«Eravamo affamati di rock'n'roll e studiavamo tutto quello che arrivava dall'America, perché tutta la roba bella arrivava da lì. Ma studiavamo senza capire che stavamo studiando: erano solo cose che ci piacevano moltissimo. Amavamo certi gruppi femminili come le Shirelles o le Chiffons… Ci piacevano così tanto che, per esempio, non ce ne fregava nulla di fare cantare una loro canzone come “Boys” a Ringo, di fargli urlare “Io sogno dei bei ragazzi!”. Per noi era bella la musica, appunto, e così guardavamo i nomi dei compositori sui dischi e ci chiedevamo chi fossero. E poi studiavamo i titoli, il che spiega perché i titoli siano sempre stati importanti per i Beatles. Mi ricordo che ci interrogammo a lungo su una canzone, “Quarter to three”: che cosa vorrà mai dire? Finalmente abbiamo scoperto che era solo “ballammo, ballamo fino a un quarto alle tre”. Insomma stavamo dietro moltissimo a queste cose, e ogni informazione che io ottenevo, la giravo poi a John, George e Ringo. E poi, certo, c'erano gli Everly Brothers… Io ero Phil Everly, John era Don Everly: li amavamo, erano perfetti, cristallini… E se John si metteva a cantare una cosa, io potevo aggiungermi con totale naturalezza ad armonizzare perché gli Everly Brothers eravamo noi».

Quella volta che mi bocciarono

«Feci un'audizione per entrare nel coro della cattedrale di Liverpool. Se ti prendevano, dopo avevi gratis i libri di scuola… Come se me ne importasse qualcosa dei libri… Era mio padre che ci teneva! Insomma, entrai terrorizzato e fui disastroso. Però molti anni dopo mi sono vendicato: gli ho rifilato il “Liverpool Oratorio”! E comunque sono entrato nel coro della chiesa di San Barnaba, vicino a Penny Lane, buono anche quello».

La magia di una risonanza…

«Una delle cose più interessanti dei Beatles è che ci accorgevamo di tutto. Un giorno mi stavo facendo portare da un autista a casa di John (Mi avevano tolto la patente per un anno: eccesso di velocità…) e, tanto per fare conversazione, chiesi all'autista come gli andassero le cose. Lui rispose: “Sto sgobbando così tanto, che è come se lavorassi otto giorni alla settimana”. Così appena sono arrivato da John gli ho detto “Ho un titolo! «Eight days a week»!”. Avrei potuto fregarmene dell'autista, e invece no. Cose simili succedevano spesso. Una volta John posò la sua chitarra semiacustica su un amplificatore; quando ci mettemmo con George Martin a risentire una registrazione, la chitarra e l'ampli entrarono in risonanza… Molti avrebbero detto “Spegnete quel casino!” e invece noi dicemmo “Bello! Lo possiamo usare?”, e George, che era molto pronto su queste cose, disse “Beh, penso di sì”: è l'inizio della canzone “I feel fine”. Quello che per altri poteva essere un fastidioso incidente, per noi era magia da trasferire su disco».

La settimana di Paul

«Non so se sia una cosa che capiti anche ad altri, o se succeda solo nella mia testolina, ma io ho sempre visualizzato i giorni della settimana come colori. Il lunedì era nero (perché si tornava a scuola), il martedì giallo, il mercoledì verde, il giovedì blu scuro, il venerdì rosso, il sabato arancione e la domenica bianca… Vorrà dire qualcosa? Penso che ciascuno di noi abbia stranezze di questo genere, ma di solito la gente preferisce non parlarne. A me invece piacciono».

Grandi incontri

«La mia vita a Londra negli Anni 60 era segnata da episodi come questo. Uno mi disse che Bertrand Russell (uno dei più influenti pensatori del Novecento, ndr) viveva a Chelsea, così gli chiesi l'indirizzo esatto e andai a bussare a quella porta. L'ho fatto tante volte, perché ho sempre pensato che tutt'al più la persona che volevo conoscere mi avrebbe detto “Vada via, non voglio parlarle!”. Ma di solito non succedeva. Insomma, bussai e mi aprì un tizio americano, uno stagista forse, che mi fece accomodare in una cameretta dove arrivò Russell e iniziammo a parlare di varie cose. Poi lui tirò fuori la questione della guerra in Vietnam: io non ne sapevo praticamente nulla, perché era una cosa che riguardava gli americani e non noi inglesi, ma lui era un grande pacifista e aveva capito che era una guerra cattiva, così me lo disse e io ne rimasi colpito. Era meraviglioso venire a contatto con persone così».

Quando facevo il “poeta”

«Da ragazzi abbiamo avuto l'opportunità di avere una buona istruzione È vero che quasi la rifiutavamo, ma ci entrò dentro comunque, e ci diede un piccolo vantaggio rispetto a tanti altri gruppi. Certe volte ci giocavamo sopra. Una volta ad Amburgo, in camerino, stavo leggendo un libretto di poesie di un qualche autore russo. Ci accorgemmo che stava arrivando qualcuno e così ci mettemmo tutti in posa: io declamavo e gli altri ascoltavano molto seri… Entrò Howie Casey, che suonava lì come noi, col suo gruppo Howie Casey and the Seniors: quando ci vede gli prese il terrore di averci disturbato, così ripose con enorme delicatezza, quasi al rallentatore, il suo sax nella custodia: per non rovinare l'atmosfera!».

Non sono stato io!

«Il più grosso equivoco legato alla fine dei Beatles è che l'abbia causata io. Per anni ho continuato a dire “Non sono stato io!”, ma quando una voce così inizia a girare, non te ne liberi più. Oggi però ci sono finalmente passato sopra».

Quanto costa essere Paul McCartney?

«Ti costa la privacy: devi rinunciarci. Io l'ho capito appena i Beatles hanno cominciato a essere i Beatles. Quando stavamo cominciando a essere appena un pochino conosciuti in Inghilterra, facemmo una vacanza in Grecia. Mi piaceva ascoltare il complessino che suonava per gli ospiti dell'albergo, avevano i loro strumenti tipici, il bouzouki e cose del genere… Con loro mi comportavo un po' come un groupie e a un certo punto ho detto “Sapete, in Inghilterra suono anch'io in un gruppo e stiamo diventando importanti…”; loro annuivano, “Sì, sì…”, ma capivo che non li convincevo, così ho pensato che la Grecia sarebbe stata il posto dove avrei sempre potuto rifugiarmi nell'anonimato… Ma già l'anno dopo ci conoscevano tutti anche lì… Insomma, a un certo punto ho dovuto decidere se lasciare la musica o convivere con questa cosa chiamata “fama”. Ho deciso di continuare con la musica e ho dovuto gestire quel che si portava con sé. Lo faccio ancora oggi».

Una bambina cocciuta

«Quando finisco una canzone, la lascio andare nel mondo e non mi preoccupo di quel che le succede. So che sulle canzoni si costruiscono dei miti, e so che non tutti capiscono il significato che volevo dare io, ma ne danno uno tutto loro: sono cose che devi accettare. Una volta, al mare, mi sono trovato a chiacchierare con una bimba. Avrà avuto 8 anni e mi disse che aveva studiato i Beatles a scuola… Poi tirò fuori una di quelle storie complottistiche… Le dissi che era una cosa falsa, che io c'ero perché stavo nei Beatles e che la verità bla bla bla… Alla fine mi guardò e concluse: “No, a scuola mi hanno detto che non è così”. Ecco, bisogna rassegnarsi a queste cose: è già tanto che la gente parli di te o ascolti la tua musica».

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