I Tears For Fears, «Rule The World» e i loro grandi successi

Rileggiamo la magnifica parabola del duo Orzabal/Smith con una playlist di pop psicologico. Colonna sonora di chi è cresciuto negli anni ’80 grazie a hit dal significato non così scontato

I Tears For Fears in concerto  Credit: © Krystle Chavez Photography
8 Novembre 2017 alle 13:01

Con l'arrivo (il 10 novembre) del nuovo greatest hits dei Tears For Fears (non il primo in assoluto, quello fu «Tears Roll Down» ed uscì nel lontano 1992), intitolato saggiamente «Rule The World», ci è venuta voglia di andare a riscoprire i brani più importanti e conosciuti del loro corposo canzoniere.

Anche perché la recente «I love you but I’m lost», ovvero il singolo tratto da questa compilation (l'altro inedito si chiama «Stay» e non è ancora in circolazione radiofonica), non è che suoni così in linea con la casa-madre presieduta dal duo Roland Orzabal e Curt Smith (quest'ultimo abbandonò la nave nei primi anni '90 salvo poi risalire a bordo nel 2004). Anzi, per via della sua scintillante produzione, sembra più una canzone degli ultimi Coldplay con un ritornello che ricorda il languore dei Pet Shop Boys di fine millennio.

Il resto di «Rule The World», invece, è storia del pop con la 'P' maiuscola. Canzoni che dal 1982 non hanno perso un'oncia di fascino e che, riascoltate al giorno d'oggi, si comprendono ancora di più. All'epoca, d'altronde, si prendevano il lusso ambizioso (e spesso trascurato) di trasferire la psicologia (quella tosta di autori come Arthur Janov) all’interno di brani pop acclamati in Europa così come negli Stati Uniti. Quello dei Tears For Fears, per farvela breve, era lo stadio che si accomoda composto sulla poltrona (quella "Big Chair" citata nel titolo del loro secondo album) dell'analista. E lì si confessa senza tabù.

Noi, queste gemme, ve le abbiamo raccolte qui per un rapido ripasso. Le più clamorose ed imprescindibili, ovviamente. I capolavori che percorrono da cima a fondo gli anni '80. In parole povere: musica di Orzabal, voce solista di Smith. Il marchio di fabbrica che non delude mai. 

**MAD WORLD (1982)**


Siamo nei primissimi anni ’80 ed un giovanissimo Roland Orzabal, un inglese del Sud appena uscito da una band ska (i Graduate), non sa che fare della propria vita. Allora un giorno, appena sveglio, si mette a fissare inebetito cosa succede fuori dalla finestra di casa sua. Per la cronaca: il tipo non abita a Las Vegas, ma in quel di Bath sopra una modesta pizzeria take away. La visione è prevedibilmente sconsolante: siamo in pieno autunno, fa un dannato freddo e i passanti si affrettano a raggiungere i loro posti di lavoro. Una scena così ordinaria e british che qualsiasi altro individuo si sarebbe rimesso a letto di gran carriera. Roland no. Agguanta una chitarra e compone di getto una melodia affascinante, memore dei suoi amati Beatles. Il lampo di genio è colto sul nascere. Tanto basterà, infatti, al produttore Chris Hughes (e alla voce del socio Curt Smith) per tramutarlo successivamente in un gioiello della nascente scena new wave. La drum machine pesta sintetica come da tradizione, l'atmosfera è cupa e occorrerà aspettare ben diciannove anni affinché il cantautore americano Gary Jules riporterà Mad World all’intuizione originale di Orzabal grazie ad un malinconico arrangiamento acustico. Cover d’effetto, la sua, che stregherà gli spettatori ignari che se la ritroveranno al cinema in una delle scene clou del cult movie Donnie Darko (2001). Sdoganando gli stessi Tears For Fears nel terzo millennio.  

**CHANGE (1983)**


In realtà Roland e Curt sono due ambiziosi nati. Sonnecchiare a Bath seguendo le orme dei loro genitori la vedono come una sconfitta esistenziale. Alla qualità musicale ci tengono eccome, ma non gli dispiacerebbe invadere le classifiche di mezzo mondo. Alla maniera di quei nuovi gruppi britannici (tipo gli ABC, i Simple Minds o i Talk Talk) che uno come Paul Morley, penna acuta del New Musical Express, sintetizzerà e venderà ai suoi lettori grazie alla parolina magica "New Pop". La bomba che Orzabal compone a questo giro si chiama (manco a farlo apposta...) Change, "Cambia". E c’è sicuramente qualcuno là fuori che la confonde ancora oggi per una canzone dei primi Duran Duran. La scansione ipnotica del synth di marca esotica, in fin dei conti, è quella delle migliori pagine di Le Bon e compagni (chi ha detto 'Girls on films'?), ma l'inquetudine qui è decisamente più palese. Quarto singolo in assoluto del duo, secondo estratto dall’album di debutto The Hurting (un disco talmente bello che meriterebbe un articolo a parte) e nuova prova di forza della voce martellante di Smith. A questo punto è letteralmente impossibile stoppare i Tears For Fears. Il mondo li attende a braccia aperte. E infatti… 

**SHOUT (1984)**


Siamo nel novembre del 1984 e in Italia si respira un'aria nuova e frizzante. Il "piccolo" Hellas Verona di Osvaldo Bagnoli sta attirandosi le simpatie di tutti gli sportivi (a maggio vincerà il suo primo, storico scudetto), l’economia nazionale tira come non mai, c’è tanta voglia di divertirsi e le vendite discografiche stanno davvero salendo a livelli da record (lo raggiungeranno, questo benedetto record, nel 1986, alias l'anno in cui si sono venduti più dischi fisici in assoluto nel nostro Paese tra 45 giri, 33 giri, cassette e CD). Serve un inno per veicolare tanta euforia e i Tears For Fears ce lo forniscono con Shout, canzone che nessuno si aspetta (il loro precedente singolo Mothers Talk, uscito a luglio, ha raggiunto un modesto risultato) e che invece esplode improvvisamente dai solchi del loro secondo album Songs From The Big Chair. Ecco, se esistesse la perfezione, qui saremmo sicuramente da quelle parti. Sei minuti abbondanti suddivisi tra la voce solista di Orzabal e le armonie ammalianti di Smith; una corazzata di sintetizzatori e batterie elettroniche invase da una chitarra rock che si permette fraseggi addirittura pinkfloydiani; un coro semplicemente immenso che ispirerà anche i Depeche Mode più populisti. E infine, tra le righe del testo, la teoria analitica del Primal Scream messa nero su bianco da Arthur Janov e già citata da John Lennon. A proposito del Baronetto: qualcuno inizia a sospettare che siano nati i Lennon/McCartney degli anni '80. Certo, servirebbe un'altra canzone per alzare l'asticella. Che puntualmente, qualche mese dopo, arriva.

**EVERYBODY WANTS TO RULE THE WORLD (1985)**


Se Shout era un classico istantaneo, un fuoco divampante, Everybody Wants To Rule The World (marzo 1985) è il manifesto più onirico dedicato agli ultimi spasmi della Guerra Fredda tra Stati Uniti ed Unione Sovietica. Tutti d’altronde vogliono governare il mondo: sui tavoli della politica, nei circuiti dell'economia capitalista, ma anche nelle ambite classifiche di vendita dei 45 giri. Piccola nota a margine: i Tears For Fears arriveranno primi in America l'8 giugno del 1985 proprio con questo singolo. Butteranno giù dal podio gli Wham!, rimanendoci due settimane e poi cedendo lo scettro al mega-ballatone 'Heaven' di Bryan Adams. La melodia penso la conosciate tutti ed Orzabal, a questo giro, si lancia in un sogno pacifista grazie ad una linea di basso ondeggiante e a delle chitarre calibratissime. Ormai i due sono in cima al pianeta, stimati da tutti. E loro, orgogliosi come sempre, cominciano a lamentarsi di quella formula vincente che hanno contribuito, in massima parte, ad inventare. L'elettronica non li soddisfa più, ambiscono a produzioni ancor più "suonate" senza dimenticarsi l'efficacia di un coro-killer. Vorrebbero addirittura fare un disco totalmente soul con la cantante Oleta Adams, ma il progetto si intoppa. Decidono quindi di fermarsi per quattro lunghi anni (troppi?) e, quando torneranno, sarà già ora di un maestoso lungo addio...

**SOWING THE SEEDS OF LOVE (1989)**


Il quinto capolavoro senza tempo dei Tears For Fears illumina il cielo a fine agosto del 1989 quando il mondo (musicale e non) sta definitivamente per cambiare pelle (c'è il rock alternativo all'orizzonte...) e da allora nulla sarà più lo stesso. Orzabal si concede il lusso di comporre l'ultima, grande canzone degli anni '80 e la canta in coppia con l'amico Smith gettando definitivamente la maschera che porta sul volto da troppo tempo. Si sente fin dai primi versi che a Roland rode qualcosa dentro. La forza propulsiva degli eighties sta svanendo e spunta perfino una frase velenosa ("D.J.'s the man we love most", alias "Il DJ è l'uomo che amiamo di più") che anticipa la furibonda stagione dei rave anni '90. Della musica non "performata", ma irradiata da un giradischi. Orzabal non ci sta, vuole urlare il suo mantra e stavolta sono addirittura i Beatles di Sgt. Pepper's a simboleggiare il convitato di pietra. Lo stacco di batteria che fa decollare fin dai primi secondi Sowing The Seeds of Love (titolo fantastico), d'altronde, sembra eseguito da un certo Ringo Starr. Poi, all'incirca dopo il terzo minuto, ecco lo stacchetto di trombe psichedeliche capace di proiettare nell'immortalità un brano così bello ed intrigante da levare il fiato. Quel brano che uno come Paul McCartney sta cercando di scrivere fin dal 1970 (l'anno di scioglimento dei Fab Four) non riuscendoci mai. Per forza, il buon Roland Orzabal ci è arrivato prima del cotanto Macca...

«Rule the World», la tracklist

01 Everybody Wants To Rule The World

02 Shout

03 I Love You But I’m Lost

04 Mad World

05 Sowing The Seeds Of Love

06 Advice For The Young At Heart

07 Head Over Heels

08 Woman In Chains

09 Change

10 Stay

11 Pale Shelter

12 Mothers Talk

13 Break It Down Again

14 I Believe

15 Raoul And The Kings Of Spain

16 Closest Thing To Heaven

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