Possiamo considerare i Beatles la band più celebre del ‘900 e probabilmente anche di questo nuovo millennio. Martedì14 febbraio, giorno di San Valentino, Tv Sorrisi e Canzoni celebra i baronetti di Liverpool con l’uscita del DVD «Eight Days A Week – The touring years» (€14,90 prezzo rivista esclusa), ovvero il documentario che Ron Howard ha dedicato ai loro anni più intensi (1962-1966) spesi on the road macinando concerti in mezzo ad una costante isteria collettiva.
John, Paul, George e Ringo: quattro ragazzi del proletariato inglese alle prese col sentimento dei sentimenti. Divagazioni psichedeliche o sociali a parte, i Fab Four hanno sempre e comunque parlato d’amore suggellando una carriera incredibile con pochi versi che non lasciano scampo: “And in the end the love you take is equal to the love you make” (da «The end», penultima traccia dell’iconico «Abbey Road»). Come a dire: “E in fin dei conti l’amore che ricevi è uguale all’amore che dai”.
Ecco quindi la nostra Top Ten delle loro migliori love-song. Non le più famose, sia chiaro: la playlist è sbilanciata (domina la penna di McCartney, il romantico per antonomasia) e per niente esaustiva. Dolorosa per alcuni tagli che abbiamo dovuto compiere, perché l’amore in fondo è anche così: doloroso. Buon viaggio e lasciate che sia.
I Saw Her Standing There (1963)
L’amore comincia sempre da un incontro inaspettato e I saw her… parla proprio di questo: di un colpo di fulmine. Di una folgorazione a ritmo di rock ‘n’ roll (un rock che sarebbe piaciuto pure ad Elvis). La voce di McCartney è perfetta: acuta e sincera quando canta che, dopo averla vista, non avrebbe mai più ballato con nessun’altra. Una bomba. Passi per Love me do (uscita pochi mesi prima) o per She loves you (che arriverà l’agosto successivo scatenando la mania), ma i Beatles ingranano la marcia esattamente da qui. Dopo sarà già leggenda.
Things We Said Today (1964)
Cosa avviene dopo un incontro fatale? Ad essere fortunati, la promessa. La malinconica e un po’ western Things we said today (di cui lo stesso McCartney beccherà la versione della vita nel suo splendido triplo album dal vivo Tripping The Live Fantastic del 1990, uscito ventisei anni dopo la prima incisione del brano) fu uno dei pezzi esclusi dalla colonna sonora di A Hard’s Night (il film diretto da Richard Lester con i Baronetti assoluti protagonisti) e relegata sul lato B dell’omonimo album. Ma la sua dinamite sentimentale non si discute per come è in grado di descrivere il dialogo schietto di due amanti. Lui deve partire (probabilmente per una tournée) e lei gli giura fiducia. Lui le crede attaccandosi “alle cose che ci siamo detti oggi”. Suggello.
In My Life (1965)
Un classico. Quando si trova la persona giusta, una delle prime cose che ci viene da dire è: non ho mai incontrato uno/una come te. Il confronto tra il prima (spesso deprimente) e il “qui ed ora”. Quello che a Lennon riuscì benissimo nel periodo in cui era sposato con Cynthia Powell, alias la mamma di Julian (Yoko Ono si sarebbe palesata più avanti). La melodia del pezzo è fantastica (puro zucchero, un po’ da ballo del liceo), ma se non ci fosse stato il produttore George Martin a metterci una pezza, In my life sarebbe anche potuta restare imprigionata in un cassetto perché lo scontroso John – che compose un buon 80% del brano – non era contento dei contributi apportati in un secondo tempo dal collega Paul. Ne esiste anche una delicata cover realizzata da Ozzy Osbourne, in cui il tenebroso frontman dei Black Sabbath, cantandola, pare quasi commuoversi.
Eleonor Rigby (1966)
Qua non si parla affatto di amore, ma dell’altra faccia della medaglia: il fantasma della solitudine, quella più asfissiante oltretutto. Dall’apatia si guarisce all’improvviso, magari approfittando di una bella giornata di sole; dalla solitudine (“All the lonely people/ Where do they all come from?”) è un altro paio di maniche. Tant’è che McCartney se ne ricordò celebrando la vita di un’anima solitaria (la stessa Eleonor del titolo) con l’ausilio di un arrangiamento austero, rispettoso, ai confini del funereo. Tramite quel famoso quartetto d’archi passato all’immortalità. E che ci provoca un groppo in gola perfino oggi.
When I’m Sixty-Four (1967)
Il progetto. Quello che salva un amore (o talvolta lo fa naufragare) è il progetto messo in atto da due persone. L’immancabile McCartney, all’interno di quel capolavoro assoluto che fu Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, si porta avanti coi tempi (all’epoca aveva solo 25 anni…) e fantastica su un’idea di vecchiaia da vivere assieme alla sua anima gemella. Un cliché romantico che in seguito sarà adoperato un po’ da tutti (ascoltatevi «Disperato» dei Thegiornalisti), ma che in questo caso funziona alla grande facendosi aiutare da una melodia baldanzosa e vaudeville. Paul arriva addirittura ad immaginarsi come si chiameranno i suoi tre nipotini (Vera, Chuck e Dave), ma il verso che trafigge il cuore è un altro. Ovvero quando canta: “Potrei sempre ripararti un fusibile quando le tue luci saranno saltate.”. Metafora eccezionale di un sentimento che non vuole spegnersi.
All You Need Is Love (1967)
Poco da aggiungere: dice già tutto il titolo. Titolo che, nella miglior tradizione del pop, è diventato in seguito uno slogan, un modo di dire e – negli anni 90 – pure il jingle di un noto programma televisivo italiano dove si spedivano lettere trasudanti passione. Tutto ciò di cui hai bisogno è amore: un consiglio che è sempre meglio tenere a mente. I Beatles la eseguirono il 25 giugno 1967, attorniati da una marea di amici VIP (Mick Jagger, Marianne Faithfull, Eric Clapton, Keith Moon ecc.), all’interno del programma Our World. Fu il primo evento realmente globale frutto di una trasmissione via satellite della BBC vista da 400 milioni di persone collegate da 25 paesi differenti.
Hey Jude (1968)
Hey Jude fu scritta in prevalenza da Paul e dedicata a Julian, il figlio di Lennon: la canzone comunica un senso di euforia e “innamoramento” in senso lato, come poche altre canzoni incise su questa Terra. Evergreen immancabile di ogni singolo concerto del Macca, la trasecolante «Hey Jude» riesce nel miracolo di far cantare stadi interi e palasport sold out fermando il tempo in una nuvola di felicità. Esattamente come chi si bacia per la prima volta. Magia.
Don’t Let Me Down (1969)
Quando si sta bene in amore non è che se ne voglia sempre di più. No: ci piacerebbe solo fermare l’attimo sperando che non passi mai. Da qui la supplica soul di Don’t let me down che implica un chiaro e semplice mantra: non deludermi col tuo comportamento. Da tutti ricordata come la canzone eseguita al gelo sul tetto della Apple il 30 gennaio 1969 durante l’ultimo concerto pubblico dei Fab Four. Quella dove l’organista Billy Preston dava il meglio di sé al piano elettrico (sentite i suoi ricami!). La cosa incredibile fu che tale brano non uscì sull’ultimo album dei Nostri, l’iper-arrangiato Let It Be, uscito postumo nella primavera del 1970 anche se poi venne recuperata sulla famosa raccolta ‘Blu’ (The Beatles 1967-1970). Non superò il vaglio (le fu preferita Get back) perché a Phil Spector, produttore dell’album in esame, semplicemente non piaceva. Misteri del rock.
Something (1969)
E finalmente tocca a George Harrison, quello genericamente “calmo” ma creativamente incontenibile. Esploso a livello melodico fin dal 1965 con If I needed someone ed autore di composizioni stratosferiche tipo I want to tell you, While my guitar gently weeps o Here comes the sun (contenuta in Abbey Road come il brano in questione), il buon George era il “minimalista” degli Scarafaggi a differenza dello straripante Paul, dell’agitatore John o del veracemente popolare Ringo (a proposito: scusaci di cuore, Ringo, per averti citato poco in questa classifica, ma tu saprai rifarti da solista con Sentimental Journey). A Something, comunque, bastano pochi versi per descrivere la leggerezza soave dell’affetto (“C’è qualcosa nel suo modo di fare che mi dice che non vorrò lasciarla”) beccandosi da un certo Frank Sinatra (che la canterà centinaia di volte durante i suoi show) il titolo di “più bella canzone mai scritta dai Beatles”. Chissà come ci sarà rimasta la coppia Lennon/McCartney…
Because (1969)
Capolavoro da strapparsi i capelli. Basterebbe concentrarsi sull’inciso formato da un paio di versi mentre la chitarra elettrica, dolce e psichedelica, comincia a spingere da dietro (spunta anche un sitar ad un certo punto). “L’amore è tutto, l’amore è qualcosa di nuovo, l’amore è tutto, l’amore sei tu”. Smaccatamente influenzata dalle armonie vocali dei Beach Boys e breve, troppo breve, Because è un brivido dietro la nuca. Trent’anni dopo, nel 1999, il cantautore americano Elliott Smith (per chi scrive colui che ha riletto meglio lo spirito dei Beatles visto che cantava alla Harrison e teneva il White Album ai piedi del letto, come talismano creativo) ne farà una cover favolosa inserita nei titoli di coda di uno dei film che meglio hanno saputo raccontare la fine del millennio: American Beauty. Smith morirà forse suicida (le cause non sono ancora del tutto chiare) nel 2003 in seguito all’uso improprio di un coltello. Ma a quel punto l’amore l’aveva già incontrato. Incidendo a occhi chiusi Because.
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