Quando Battiato mi disse: «Tu non capisci niente»

A 40 anni dalla prima pubblicazione, dal 19 luglio in edicola con Sorrisi troverete l'album "L'era del cinghiale bianco" di Franco Battiato. E il nostro direttore racconta così il cantautore

Franco Battiato
16 Luglio 2019 alle 15:57

Molti anni fa andai a pranzo con Franco Battiato e me la vidi brutta: era uscito da poco un disco di Alice a cui lui aveva collaborato e io, che allora scrivevo su «Il Giornale», avevo pubblicato una recensione, diciamo così, «non proprio positiva». Battiato, che io adoro sin dai suoi primissimi album, mi sgridò senza mezzi termini, facendomi in sostanza intendere che io di quel disco (o forse di musica in generale) non capivo nulla. Quell’incidente poi col tempo è stato superato, per fortuna, e due anni fa ho passato un’intera mattina con lui per un’intervista per Sorrisi in cui si lasciò soavemente andare a ricordi, spiegazioni, riflessioni come mai aveva fatto prima (se la volete leggere o rileggere la trovate qui) e durante la quale mi chiese addirittura di dargli del tu (a me veniva di dargli del voi, pensate un po’ che fatica che ho fatto!).

Oltretutto Battiato mi viene da chiamarlo maestro, perché sono profondamente convinto che lo sia. Ascoltavo, da ragazzino, i suoi dischi sperimentali, pieni di elettronica e di suoni che a casa mia non venivano capiti («Abbassa quel rumore!» gridavano i miei) e poi ho seguito la sua continua evoluzione musicale. Il suo album «La voce del padrone» mi sorprese mentre ero all’università. Ne fui folgorato, come un milione di persone che corsero a comprarlo (è stato il primo disco italiano a vendere così tanto), e intonavo in macchina a squarciagola canzoni che non avrei più smesso di cantare: ancora oggi, dopo più di 35 anni, so a memoria «Cuccurucucù», «Centro di gravità permanente» e tutti gli altri capolavori di questo disco fulminante. In quegli anni con alcuni compagni di università (ci chiamavano i «battiamatti») andavamo a vederlo spesso in concerto, caricandoci anche di centinaia di chilometri: era nella sua fase in cui cantava immobile, in piedi con la chitarra e gli occhiali scuri, parlava poco o niente tra una canzone e l’altra.

Battiato ha sempre scritto, disco dopo disco, canzoni meravigliose e sorprendenti, sia per i testi che per la musica, insegnandoci come misticismo, culture lontane, sentimenti e ritornelli sofisticati ma misteriosamente orecchiabili siano elementi che possono convivere tutti insieme in tre minuti. In concerto poi ha cambiato atteggiamento, stendendo un tappeto sul palco e cantando per lo più seduto con quella sua voce inconfondibile, dal timbro purissimo, carico di una magica «forza tranquilla», come dicono i giapponesi. E i «battiamatti», ormai cresciuti e con figli, sempre lì a seguirlo.

L’ultima volta che l’ho incontrato è stato al Teatro degli Arcimboldi di Milano, prima di un suo meraviglioso concerto in cui cantò anche con Alice. In camerino c’erano dei bambini, credo dei suoi nipoti, che gli saltavano attorno e lui era rilassato e divertito. Anche Alice lo era. L’unico un po’ teso ero io. Pensavo: e se gli torna in mente quella maldestra recensione di tanti anni fa?

Seguici