Renato Zero: «Molto presto vi stupirò (anche) con un film»

Il cantante si racconta a Sorrisi dopo che il suo ultimo “folle” album è arrivato primo nella Superclassifica

Renato Zero
25 Ottobre 2019 alle 17:13

Quarant’anni passati da numero uno: non è certo da tutti. Ma Renato Zero, lo sappiamo, non è un artista come tutti gli altri. Era il 1979 quando arrivò per la prima volta in testa alla Superclassifica di Sorrisi con “EroZero” (l’album leggendario che si apre con “Il carrozzone”).

La scorsa settimana ci è riuscito per la 17a volta grazie a “Zero il folle”, il disco uscito il 4 ottobre dedicato ai ribelli che, proprio come lui, sfidano le convenzioni della società. Un’opera piena di temi importanti, dall’ambiente alla religione: è il suo affresco onesto e impietoso del mondo di oggi. In attesa del tour che porterà questi nuovi brani in giro per l’Italia (13 date a partire dal 1° novembre), abbiamo incontrato l’artista romano per fare il punto su una carriera straordinaria.

Ci ha accolti col suo look inconfondibile: vestito tutto di nero, un cappello a cilindro con decorazioni ispirate al pentagramma, occhialoni in tinta con brillantini sfavillanti. E noi gli abbiamo chiesto di aprirci il suo cuore.

Alla soglia dei 70 anni ci si guarda indietro: qual è il ricordo del Renato bambino a cui è più legato?
«Mi rivedo a 7 anni mentre porto a spasso il mio pastore tedesco, una femmina di nome Jay. Per non farla scappare, mia nonna mi arrotolava per bene il guinzaglio al polso e pretendeva che facessi tutto il giro dell’Ara Pacis. In realtà era Jay che portava a spasso me, trascinandomi lungo il percorso. Arrivavo a casa distrutto e mia nonna rideva: era anche lei un po’ folle. Evidentemente è una caratteristica nel Dna di famiglia…».

Se Zero è il folle, chi tra i suoi colleghi di oggi è come lui?
«Lo dico con amarezza, oggi noto soprattutto prodotti creati apposta per il mercato. Ma non mi piacerebbe nemmeno se ci fossero tanti nuovi Zero: mi farebbe un po’ pena vedere presunti artisti copiare la mia follia creativa, invece di crearsi un profilo tutto loro».

Renato Zero oggi passerebbe le selezioni di “X Factor” o “The Voice of Italy”?
«Non credo, non proverebbe nemmeno a iscriversi per partecipare. C’è un sovraffollamento che impedisce di capire bene le caratteristiche dei singoli ragazzi. I talent show hanno cancellato il concetto di gavetta. E poi danno un messaggio sbagliato: se fallisci al primo colpo, sei finito; mentre invece io ho visto tanti “ultimi” trasformarsi in primi, da Lucio Battisti a Vasco Rossi».

E se le offrissero di fare il giudice?
«Me lo hanno offerto, ma ho rifiutato perché non fa per me: in passato sono stato talmente giudicato io che oggi non mi sentirei proprio di farlo con dei giovani davanti a me».

Della musica di oggi che cosa le piace?
«Mi piace chi cerca di cambiare e di rimettersi in gioco, come ha fatto qualche anno fa Gino Paoli rivisitando e stravolgendo i suoi classici con un pianista formidabile come Danilo Rea».

E che cosa, invece, davvero non le piace?
«La mancanza di assistenti musicali e veri produttori discografici: ai miei tempi tutti coloro che erano in questo ambiente sapevano di musica.
I produttori non si limitavano a mettere i soldi ma si prendevano la responsabilità di scegliere il repertorio, controllare la qualità dei testi, intervenire sulla tonalità dei brani ottimale per l’artista».

Le sue canzoni piacciono a tre generazioni: qual è il segreto?
«Ce ne sono almeno tre: primo, i più giovani si fidano dei gusti dei genitori e dei nonni. Secondo, la grande varietà di temi che affronto nei miei testi. Terzo, la continua ricerca di nuovi generi attraverso cui esprimermi: “Il tuo safari” nel 1974 era quasi heavy metal, ho perfino sfiorato il dixieland (uno stile del jazz nato a New Orleans, ndr). In ogni mio disco ho cercato di essere sempre diverso».

Che pregio si riconosce?
«Amo il fatto di avere ancora quel sacro fuoco che si impossessò di me a 15 anni, quando “Zero” si impadronì di “Renato”. E non ho intenzione di spegnerlo. Non mi piace, invece, la mia idiosincrasia per l’aereo: mi ha impedito di portare la mia musica al di fuori dell’Italia come avrei voluto e potuto. Tutto nasce da una tournée che feci insieme con Walter Chiari e Loredana Bertè a Toronto e al Madison Square Garden di New York: il giorno dopo l’ultimo spettacolo qualcuno forzò la cassaforte dell’albergo e portò via tutti i miei cachet per quelle serate. Ne rimasi così traumatizzato che non volli più saperne di volare all’estero».

Che rapporto ha con la tv? Non le manca uno show tutto suo?
«La guardo poco e in questo momento non sento il bisogno di farla: preferisco il rapporto più diretto che si ha con il pubblico quando sono sul palcoscenico. Vedo una grande carenza strutturale e organizzativa, non c’è più la Rai dei tempi d’oro, difficile che possa venirmi voglia di prendere in mano un copione televisivo».

In carriera ha avuto tutto. Ma che cos’altro le piacerebbe fare?
«Il cinema, vorrei affacciarmi alla regia. È qualcosa di più di un sogno: ho già scritto una sceneggiatura, i finanziatori ci sono, ora si tratta di cercare un direttore della fotografia con i fiocchi, un assistente alla regia di altissimo livello, un casting come dico io. Voglio che sia un film di respiro internazionale. Di cosa tratta? È top secret!».

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