Renato Zero: 70 anni e una carriera straordinaria

Festeggia i suoi 70 anni con una trilogia di inediti e traccia con Sorrisi un bilancio della sua straordinaria carriera

Renato Zero  Credit: © Roberto Rocco
30 Settembre 2020 alle 08:30

È in gran forma Renato Zero. Per festeggiare i suoi primi 70 anni, che compie il 30 settembre, ha deciso di fare quello che ha sempre fatto: non passare inosservato. Ecco allora “Zerosettanta”, un progetto discografico ambizioso e monumentale, una trilogia di inediti in uscita proprio il 30 di ogni mese, a settembre, ottobre e novembre. Quaranta canzoni ispirate, ricche di attenzione alla parte musicale e collaborazioni importanti: dalla produzione e dagli arrangiamenti di Phil Palmer e Alan Clark alla presenza di musicisti italiani del calibro di Fabrizio Bosso e Gianluca Littera. «Spero che mi si riconosca il merito di non annoiare, di non proporre sempre la solita solfa» ci spiega Renato. «Credo che ci voglia anche la furbizia di analizzarsi, di buttare via roba, se è il caso. Nella lavorazione di questo disco ho buttato nel cestino tante canzoni che potevano pure andare, ma delle quali non ero contento. Bisogna avere questa capacità di accettare che non tutto quello che fai serve».


Come si sente il settantenne Renato Zero?
«Quando arrivano i 70 anni e tu stai alla fermata, prendi l’autobus con più disinvoltura, nel senso che non stai a pensare dove ti porta. Ci vai, ci monti sopra e continui ’sto viaggio. I 70 anni sono l’opportunità migliore di raccontare se stessi. Per poter fare un bilancio che può servire anche a quelli che non mi hanno seguito fino a oggi, perché i settantenni che non ci sono arrivati così in buona salute o non hanno realizzato i propri sogni possono avere il conforto di sapere da me che, malgrado io sia Renato Zero, abbia venduto i dischi e abbia fatto delle cose, ho sofferto come loro e continuerò a soffrire come loro perché non ho accettato supinamente il valore del denaro e del successo. Il successo è l’evento più infausto e bugiardo che possa accadere a un essere umano. Gestirlo è complicatissimo, mette in crisi gli amici e forse non te ne crea di nuovi. È na jettatura, ’sto successo...».

Quando ha capito di essere diventato Renato Zero?
«Io non l’ho capito. Questa è la forza di tutto. Ho cominciato che a vedermi c’erano tre gatti, poi quattro, poi 20, poi 100, poi 10 mila, poi
70 mila all’Olimpico, è stata una cosa progressiva magnifica. Questo mi ha aiutato ad assimilare quella patologia che è il successo, prenderne coscienza e mettere in pratica una terapia».

Nel nuovo disco c’è un brano che s’intitola “Innamorato di me”.
«Sì, perché noi spesso ci trascuriamo, molti non ci tengono, fanno finta di non conoscersi. Io, invece, mi compiaccio di come sono. Fra me e me c’è questa complicità bella, capito? Non ci siamo mai mandati a quel paese e abbiamo sempre condiviso tutto».

Ha mollato presto gli studi. Quali sono stati i suoi riferimenti culturali?
«Amavo molto Oscar Wilde, Byron, questi inglesi che avevano una mentalità così rivoluzionaria. E in Italia Pasolini, che avrei potuto incontrare, solo che i miei amici, molto protettivi, mi sconsigliarono di farlo dicendo che ero troppo giovane per reggere una personalità come quella. Quando compresi che mi stavo perdendo un’occasione d’oro e decisi d’incontrarlo lui purtroppo fu assassinato. Un altro incontro che avrei desiderato, e ti sembrerà strano, era quello con Andreotti».

Ammetto che non me l’aspettavo.
«Chiamò mia sorella dicendole che mi voleva incontrare e che gli sarebbe piaciuto scambiare con me dei pensieri. Accettai immediatamente, perché m’incuriosiva questa sua romanità colta. Vestita di potere. Perché la romanità viene sempre rappresentata come povera: quando uno pensa a un romano lo vede disgraziato, che sta lì sulla sedia di vimini che piagne, che dice qui non succede mai niente, ’n se magna niente... Nell’immaginario il romano non possiede charme e carisma. Quindi vedere uno che arriva a quei livelli e si difende in quel modo mi attraeva. Purtroppo anche lì... sta str***a della morte arriva sempre al momento sbagliato».

C’è mai stato un momento in cui ha pensato che la sua favola fosse arrivata al capolinea?
«Sì, nel 1981, quando durante un concerto al Castello Sforzesco di Milano ci fu un crollo e una mia fan cadde e morì. Titolarono: “Renato Zero canta, Tiziana Canesi muore”. Fu un momento terribile: quella povera ragazza era una mia fan, ma non ero io che avevo fatto entrare 15 mila persone in un posto che ne conteneva tremila. Fu facile infierire contro uno come me, che parlava troppo, che nei concerti metteva a nudo la realtà del Paese, che nelle canzoni puntava il dito. Per questo oggi sono tranquillo, ben contento di trovarmi a fare quello che faccio, professare un pensiero positivo, una filosofia di vita. Non mi sento un cantante. Quella parola mi fa pensare al paese, la fiera, lo zucchero filato. Tutto pittoresco, ma lontano da ciò che sono».

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