Festeggia con noi la Giornata Mondiale della Radio e racconta curiosità e segreti del suo primo grande amore
Renzo Arbore e la radio: una sintonia perfetta. Del resto, lui non la ama come il giorno in cui l’ha incontrata, ma molto di più! E lei continua a sedurlo. Nella Giornata Mondiale della Radio questo è un amore che va raccontato. «Io ho cominciato con la radio! E non parlo di lavoro: per me tutto parte da quando l’ascoltavo da piccolo» comincia a ricordare Renzo. «Il primo apparecchio che arrivò in casa nostra, a Foggia, era di marca Allocchio Bacchini. Lo tenevamo su un mobile in camera da pranzo. Ricordo le prime trasmissioni della Rai dopo la Seconda guerra mondiale, organizzate in due “reti”: la Rete Azzurra e la Rete Rossa. E ricordo la passione con cui ci si costruiva, con i residuati americani, la radio a galena, un apparecchio che s’ascoltava con cuffie particolari e ti metteva in contatto con città lontane, esotiche. Era la mia adolescenza da appassionato».
La prima trasmissione che la emozionò?
«Quando gli Alleati hanno liberato il Sud, la prima emittente a trasmettere “liberamente” fu Radio Bari, e lì, nel pomeriggio, c’era un programma di fiabe raccontate da un certo Lucignolo. Molti anni dopo, quando ho cominciato a lavorare alla radio della Rai, ho conosciuto chi gli dava la voce: si chiamava Carlo Bressan».
Noi, invece, abbiamo conosciuto la sua voce dal 1965 con “Bandiera Gialla”, la trasmissione in cui affiancò Gianni Boncompagni come autore, “selezionatore” dei dischi e, appunto, conduttore. Ed era una voce lontanissima da quelle dei classici speaker: la “erre” particolare, l’accento marcato
«All’epoca uno mi chiese: “Ma lei che sta alla radio, conosce quello che parla come se fosse a casa sua?”. Ovviamente parlava di me».
Tra le grandi voci della radio italiana, qual è la sua preferita?
«Quella di Gigi Ortuso. Conduceva “Il Discobolo”, la trasmissione che (tra il 1953 e il 1961, ndr) tutti noi ragazzi “dovevamo” ascoltare, perché presentava le novità discografiche».
C’è una caratteristica fondamentale che contraddistingue un bravo conduttore radiofonico?
«La fantasia: se non ce l’hai, non puoi animare la tua trasmissione. E la radio è la palestra perfetta per allenare la fantasia, che va alimentata leggendo e informandosi. Non è un caso che tutti i grandi presentatori di oggi, a partire da Amadeus, vengano dalla radio. E non è un caso che i dj senza fantasia, capaci solo di fare gli “amministratori” di dischi, vengano dimenticati».
Quanto pesa l’emozione dell’ascoltatore nella creazione dello “spettacolo radiofonico”?
«Tanto, direi quasi il 50%. La radio stimola nel pubblico la fantasia d’immaginazione. Per dire, ogni ascoltatore di “Alto gradimento” si immaginava come fossero personaggi come lo Scarpantibus o il professor Aristogitone».
Se incontrasse ora Guglielmo Marconi, l’inventore della radio, cosa gli direbbe?
«Solo “grazie”».
Perché la radio rimane il suo vero grande amore artistico…
«E poi le sono grato. Ero un ragazzo timido, con questo accento mezzo pugliese e mezzo napoletano, e mi sembrava impossibile poter arrivare un giorno alla radio. E invece mi ha accolto».
Nel 1984 lei “ringraziò” la radio con un programma televisivo rimasto nella storia, “Cari amici vicini e lontani”…
«Si festeggiavano i 60 anni dalla prima trasmissione radiofonica italiana e i protagonisti di quella stagione vennero tutti, a partire da Nunzio Filogamo e Corrado».
Tra quei protagonisti, chi la emozionò di più?
«Il mio idolo, pensi, era Ruggero Orlando, il corrispondente da New York! Quando ho scelto di percorrere la “via artistica”, avevo tre modelli: Louis Armstrong per la musica; Totò per l’umorismo, e appunto Ruggero Orlando per la capacità di parlare in modo molto semplice di cose molto difficili».
Paragonare le prestazioni di un super televisore con un mega schermo a quelle dell’ultimo dei televisorini è impossibile. La radio più sofisticata e quella più piccola, invece, fanno un lavoro identico.
«Molto. Alla fine la cosa che ha contato veramente per la radio è stata la “mobilità”: l’essere potenzialmente onnipresente. Certo, questa cosa oggi appare “passata”: abbiamo una mentalità da cellulare che può fare tutto. Eppure anche la radio cambia: ora la vediamo fatta in tv, si è reinventata nei podcast...».
Quanto l’ascolta?
«Ancora tanto. Al mattino mi divido tra i canali Rai, perché mi piace il lavoro che fa il direttore Roberto Sergio, ma seguo anche le radio private».
Ha mai preso una papera clamorosa?
«Tipo quella storica di Corrado? Quando disse “La valcacata delle Valchirie” invece che “La cavalcata delle Valchirie”?».
Una così, sì.
«Mi sembra di no, ma di stupidaggini, invece, sì: di quelle ne ho fatte davvero tante (sorride)».