Il Festival si tiene su quel palco dal ‘77: doveva essere una soluzione provvisoria, e invece fu così che nacque una leggenda
È quasi una formula magica: basta pronunciare la frase «dal Teatro Ariston di Sanremo» e subito alla mente affiorano ricordi di fiori, canzoni, grandi emozioni. Per quasi tutto l’anno, Ariston è un cinema-teatro multisala, ma quando ci si avvicina al mese di febbraio inizia il prodigio e si trasforma nello scrigno che “racchiude” il palco più importante d’Italia. Nella storia ha ospitato grandi tournée, spettacoli, concerti, convegni, un incontro di premi Nobel, addirittura incontri di boxe ed è diventato persino un luogo consacrato, con celebranti e altare per una settimana liturgica. A raccontare tutti i segreti del luogo non poteva che essere Walter Vacchino, che del Teatro Ariston è il proprietario, insieme con la sorella Carla. Il libro “Ariston - La scatola magica di Sanremo” è il racconto che ha scritto con Luca Ammirati, responsabile della sala stampa del Teatro.
«È intanto una storia di famiglia» spiega Vacchino. «Una famiglia che si occupa di cinema addirittura dal 1907, con il Cinematografo Sanremese creato da mio nonno Carlo. Il pubblico era già entusiasta di quel nuovo spettacolo e il sogno di mio padre Aristide, che fin da piccolo mangiava e beveva cinema, era quello di creare un grande teatro per accogliere tutti gli appassionati. La progettazione inizia nel 1953 e dopo dieci anni di burocrazia e ostacoli nasce l’Ariston che voi conoscete».
Per il Festival, però, bisogna attendere il 1977...
«Diciamo che in quell’anno la nostra vita è cambiata. Una vetrata del Casinò di Sanremo totalmente fuori norma ha reso inagibile la Sala del giardino d’inverno. E il Festival si è trasferito da noi, come dico sempre, “in via provvisoria”».
Uno storico capostruttura Rai, Mario Maffucci, diceva: «Gli uomini di televisione sostengono che il palcoscenico dell’Ariston faccia, da solo, tre punti di share in più». È davvero così?
«Ammettiamolo: la magia di questo cinema-teatro è innegabile anche per il pubblico televisivo. Per me è come una batteria che ha accumulato tutta l’energia delle persone che hanno lavorato in questo luogo. È un luogo in cui tutti sognano di arrivare, sia gli artisti, sia gli spettatori, ma non tutti purtroppo ne hanno la possibilità. Ecco, poter essere al Festival di Sanremo rimane un bellissimo sogno: se la sala avesse diecimila posti, questo sogno avrebbe una minore intensità. A volte, quando un desiderio si avvera diciamo: “È tutto qui?”. Per il Festival di Sanremo questo non vale: tutti gli anni riesce a inventare qualcosa di diverso, non solo per gli artisti. La magia si rinnova».
Momenti difficili ce ne sono stati, però. Nel 1990 il Festival se n’è andato al Palafiori, una struttura nei pressi di Arma di Taggia. Nel 2021, invece, col teatro chiuso per la pandemia per la prima volta in 57 anni, lei pensa: «Il sipario potrebbe non alzarsi mai più». Eppure l’Ariston è rinato...
«In entrambe le occasioni non ci siamo arresi. Di fronte a un’onda contraria abbiamo abbassato la testa e aspettato che l’onda passasse».
Ogni anno c’è chi lancia l’idea di costruire in città un Palazzo del Festival, più grande, con la possibilità di costruire uno spettacolo in stile Eurovision. Cosa risponde?
«Rispondo sempre: confrontiamoci. Questo teatro ha ancora altre possibilità e potenzialità. Bisogna integrare il sogno e la realtà, il presente e il futuro. Nella vita tutto si evolve, potrebbe arrivare un grande Palazzo tipo quello del cinema a Cannes, l’Ariston addirittura potrebbe diventare un garage, com’è successo a tanti teatri e cinema chiusi... Ma per ora dico, appunto, confrontiamoci. L’ho detto a Paolo Bonolis, che quando ha parlato della sua idea di Festival ha sempre ribadito con forza la necessità di un nuovo edificio, ma non sono mai riuscito ad approfondire con lui questo tema. Vediamo come si possono superare i vincoli con le idee e con la fantasia».
In ogni periodo dell’anno di fronte all’Ariston ci sono tanti turisti che si scattano selfie a raffica...
«I turisti vengono quasi in pellegrinaggio davanti all’Ariston, vogliono visitarlo, avere una propria foto davanti all’ingresso e questo fenomeno è cresciuto tantissimo. Tutti gli anni mi chiedono di cambiare il nome al teatro o di cambiare la scritta davanti al teatro, ma vogliamo difendere la nostra identità. In questo periodo storico in cui tutto è effimero siamo come quegli artisti “avanti con gli anni” che ogni volta rinnovano il loro successo. In fin dei conti, noi siamo diventati un po’ una favola: vorremmo proprio continuare a raccontarla».