“The Wall” dei Pink Floyd compie 40 anni: il muro del suono che non cadrà mai

Il capolavoro discografico, nato dalla scintilla di Roger Waters, stupisce ancora oggi perché racconta la verità di una band ormai divisa e agli sgoccioli

I Pink Floyd in concerto all'Earls Court di Londra durante il "The Wall" tour nel 1980  Credit: © Getty Images
29 Novembre 2019 alle 17:14

"Sarà la musica che gira intorno/Saremo noi che abbiamo nella testa un maledetto muro" (Ivano Fossati, 1983)

Le parole sono importanti. E allora ascoltiamole ancora per una volta. «Ricordo che quando cominciai a scriverlo era l'autunno del 1977. Mese dopo mese, canzone dopo canzone, arrivai fino al luglio del '78. Solo che a quel punto non avevo più un solo disco tra le mani. Ne avevo uno doppio, se non triplo. Più un altro album che non avrei pubblicato per anni ("The Pros and Cons of Hitch Hiking", poi uscito effettivamente nel 1984, ndr). Certo che ne avevo di cose da dire, eh?».

Chi parla in questo caso è Roger Waters, ex cantante e bassista dei Pink Floyd, interrogato sul secondo capolavoro assoluto della sua band che gli avrebbe cambiato la vita per sempre: il doppio album "The Wall", uscito nei negozi di tutto il mondo il 30 novembre 1979, esattamente quarant'anni fa, proprio mentre il decennio più fertile e culturalmente impegnato di tutto il Novecento stava ormai per volgere al termine. Un bel commiato, non c'è che dire.

Quell'opera monumentale seguiva di sei anni abbondanti il primo capolavoro dei Floyd ("The Dark Side Of The Moon", ovviamente), conteneva ben 26 canzoni (più di quante il famoso gruppo britannico aveva piazzato nei suoi quattro dischi precedenti), nel giro di tre anni sarebbe diventato un claustrofobico film diretto da Alan Parker (che sbarcò a Cannes nel maggio 1982) e nel cuore dell'estate del 1990 pure un concerto epocale in quel di Berlino. All'interno di una Germania che festeggiava la riunificazione, vero e proprio antipasto di una Europa forte e coesa. O almeno così si pensava a quei tempi.

Waters, dopo la maratona artistica e psicologica di "The Wall", sarebbe andato avanti comunque come songwriter e i Pink Floyd idem. Da separati litigiosi (la causa legale sarebbe scoppiata una volta per tutte nel 1986) e senza mai minimamente avvicinarsi a tale vetta. Nonostante "Amused To Death" (1992) dello stesso bassista sia stato un disco prezioso e speciale allo stesso modo di "The Division Bell" (1994), partorito invece dalla band-madre e suo effettivo canto del cigno.

Eppure il "muro", quel muro prodotto in maniera chirurgica da Bob Ezrin (in passato già alla corte di Lou Reed e Alice Cooper) avrebbe comunque presentato il suo conto salato. In tante maniere. In termini di feroce creatività che ti logora i neuroni, discussioni estenuanti, licenziamenti dolorosi (il tastierista Richard Wright che di fatto venne esiliato già nel '78), pesanti debiti economici da saldare (i Pink Floyd, nel 1977, erano in rosso di circa due milioni e mezzo di sterline), sedute dallo psicologo messe direttamente sul pentagramma, arrangiamenti eterogenei, sfacciati e lussuriosi (nei quattro lati di "The Wall" c'è praticamente di tutto: dalla disco music alle sonorità barocche passando per il rock da stadio, le polifonie dei Beach Boys, le ballate delicate, il vaudeville e gli assoli di chitarra che ti trafiggono il cuore) e canzoni. Grandi e memorabili canzoni. Senza di quelle, d'altronde, non si va da nessuna parte. Tutto questo era ed è "The Wall".

Un concept album sulla guerra - anzi, la Guerra con la "G" maiuscola - e sugli effetti dell'alienazione generati dal vivere un'esistenza sopra le righe. «Tipo quella di una boriosa rockstar», suggerì beffardamente qualcuno. Bertold Brecht trasferito direttamente in uno stadio. Un demo acustico - quello registrato febbrilmente da Waters - che girava nel mangianastri dei Britannia Row Studios nella calda estate del '78. Interminabile e composto da tanti, troppi brani: alcuni anche molto noiosi e ai quali Ezrin e l'intera band diedero un grosso contribuito in termini di idee. «Tutta la band, non solo Roger», suggerisce malizioso, ancora oggi, il chitarrista David Gilmour. Una corsa contro il tempo il cui ultimo mix venne chiuso solo tre settimane prima di andare in stampa al culmine di session caotiche svoltesi tra la gaudente Costa Azzurra (sapete che il disco nacque prevalentemente a Nizza?), la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Scegliete voi la definizione che preferite. Di sicuro "The Wall" non fu figlio del caso. Quello no: mai e poi mai. Neppure la cupola della Cappella Sistina è stata dipinta giusto per ammazzare il tempo.


La cosa veramente paradossale è che "The Wall" fu un'opera "punk" concepita da una band che proprio punk effettivamente non era. Una band nata nei sixties, agli albori della psichedelia più sfrenata (la fase Syd Barrett e dell'Ufo Club), sempre pronta a lavorare con grandi professionisti (Alan Parsons) o strumentisti classici (quelli di "Atom Heart Mother"). Un gruppo attento in maniera maniacale alla cura del suono. E nel dubbio uno può sempre riascoltarsi "Meddle", "The Dark Side Of The Moon", "Wish You Were Here" e tutto il resto della imponente discografia floydiana.

Eppure senza uno sputo, un semplice sputo fatto di saliva (gesto punk per antonomasia) forse oggi non staremmo a goderci per l'ennesima volta - cito a caso - "In The Flesh?", "Another Brick in the Wall part 2", "Mother", "Hey You", "Comfortably Numb" o "Run Like Hell". Mica l'indie pop, con tutto il rispetto.

La storia probabilmente l'avrete già sentita un milione di volte perché ogni tanto Roger Waters la ritira fuori dal cassetto. Era il 6 luglio 1977, il luogo prescelto la splendida Montreal. Nel mastodontico Olympic Stadium, dove esattamente un anno prima era avvenuta la ventunesima Olimpiade estiva dell'era moderna (quella della delusione atroce di Pietro Mennea, solo quarto nei 200 metri), i Pink Floyd avevano in programma un ennesimo concerto dove avrebbero suonato principalmente le canzoni di "Animals". Disco già di per sè ipercritico verso la società dei consumi, uscito nel gennaio precedente. «A un certo punto - ricorda il bassista - vedo questo ragazzo esagitato in prima fila che da solo stava disturbando decine d'altri spettatori». La leggenda narra che il giovanotto continuasse a urlare, tra una parolaccia e l'altra, la stessa identica frase: «Roger, suona "Careful with that axe, Eugene"! Eddai, Roger, suonala!».

«In pratica questo tizio non aveva minimamente rispetto per chi gli stava accanto e per la musica che noi stavamo eseguendo sul palco. Era solo un odioso scocciatore», racconta indispettito Waters.

«Successe tutto in un istante: mi avvicinai al bordo dello stage, presi la mira e gli sputai in faccia. Colpito in pieno! Nelle settimane successive tornai tante volte su quell'episodio. Non riuscivo a levarmelo di mente. Forse perché - quella sera a Montreal - m'ero tramutato in quello che non sarei mai voluto diventare...». E i Pink Floyd erano diventati a loro volta tutto ciò che un animo puro come Syd Barrett non si sarebbe mai augurato. Un gruppo altezzoso e totalitario. Diviso dal suo pubblico per via delle barriere architettoniche che un grande stadio ti sbatte normalmente in faccia. «Un giorno presi carta e penna - aggiunge Waters - e disegnai di getto un'arena col palco da una parte e il pubblico dall'altra. E in mezzo ci misi un muro divisorio. Sì, un gran bel muro. L'idea nacque da lì».

A Roger s'era accesa la classica lampadina sulla testa. Costruire un muro, un muro vero fatto di polistirolo, nel bel mezzo di un concerto rock. E indicare in ogni suo singolo mattone il motivo del perché quello stesso muro esiste nel cervello delle persone. La lista è lunga: traumi infantili, abbandono, madri troppo possessive, insegnanti tiranni, bullismo, dipendenze chimiche, rapporti controversi con l'altro sesso, la politica ecc. «Non potevo più aspettare. Posai il foglio da disegno e passai direttamente alla chitarra acustica». Il resto, come si dice, è Storia.


Ecco, citato l'antefatto, lungi da noi narrarvi per l'ennesima volta la vicenda di Pink (il protagonista del disco portato poi magistralmente sul grande schermo da Bob Geldof) e tutta la trama - abbastanza lineare - di "The Wall".

Concept che parte dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale (quando il padre di Waters, il sottotenente Eric Fletcher, morì durante il sanguinoso sbarco di Anzio), passa per svariati deliri d'onnipotenza e clamorosi affondi nel buio e arriva, una volta per tutte, al famoso processo. Quando "Vostro Onore, il Verme" decide che il famoso muro - eretto nella psiche di Pink/Geldof - venga abbattuto. Affinché lo stesso musicista, messo di fronte alle sue colpe, possa finalmente tornare a vivere e a ricongiungersi con chi davvero lo ama. Happy end?

Non staremo neanche a raccontarvi della bellezza delle singole canzoni (tipo "Mother" su cui suona la batteria Jeff Porcaro dei Toto) o che la celebre "Comfortably Numb" sarebbe dovuta uscire in origine su un album solista di David Gilmour («Era solo un accenno, niente di completo - specifica il chitarrista - però sì, esisteva»). In pratica non vi sveleremmo niente di nuovo e che non saprete già da qualche biografia. E allora che fare per celebrare dignitosamente questi quarant'anni di un disco che ci ha inquietati da ragazzi e in un certo qual modo rasserenati da adulti? Rasserenati - sia ben chiaro - solo perché molte tematiche watersiane, oggi e solo oggi, le capiamo un pochino meglio...

Forse ci piacerebbe salutarvi con un piccolo, ma fondamentale, aneddoto che riguarda i leggendari concerti (31 in totale, tutti andati in scena nel biennio '80/'81 tra Los Angeles, New York, Dortmund e Londra) che vennero allestiti per la promozione di "The Wall".


Ricorda il batterista Nick Mason parlando proprio dell'ultima manciata di date svoltesi nel giugno del 1981 ad Earls Court, una nota arena londinese. «I rapporti tra di noi si erano ancor di più deteriorati rispetto a quando registrammo l'album due anni prima. Nel backstage di Earls Court ogni membro della band aveva ormai un suo camerino rigorosamente personale. Quello di Roger Waters e quello di Rick Wright erano addirittura montati agli antipodi, con la porta che si apriva sul lato opposto rispetto allo spazio comune! Era uno stratagemma perché quei due, a parte che sul palco, non si incontrassero mai. A fine concerto, poi, organizzavamo tutti quanti dei party privati. Evitando accuratamente di invitarci l'uno con l'altro...». Era forse una band quella? No che non lo era più.

Della serie: la vita aveva ancora una volta preso ispirazione dall'Arte e il muro - metaforico e musicale - che i Pink Floyd portavano in scena per l'ultima volta in quelle tiepide serate inglesi di inizio giugno, in realtà lo stavano già vivendo da tempo nella vita reale di ogni giorno.

Finzione, d'altronde, in quel gruppo ce n'è sempre stata poca, dai deliri di Barrett in poi. Ecco perché "The Wall" resta, nel 1979 come nel 2019, una pietra miliare. Anzi, la Pietra più pesante della miniera del rock. Perché, in modo molto british e cinico, si limita all'azione più pericolosa (e banale) di tutte: dirci che la vita è dura. Raccontarci spudoratamente la verità.

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