«Vi spiego come sono diventato Ultimo»

Ha conquistato milioni di ragazzi con la forza delle sue canzoni. E qui si racconta come non ha mai fatto

Ultimo  Credit: © Iwan Palombi
27 Giugno 2019 alle 10:55

Uno per Domitilla, l’amica di mia figlia grande. Uno per Vittoria, l’amica di mia figlia piccola. Uno per mia figlia piccola. Uno per Francesca, la mia, di amica. La lista degli autografi e dei saluti attraverso i video da chiedere è pronta. In tanti anni di lavoro a Sorrisi non è mai stata così lunga. Le parole magiche sono: “Dovrò intervistare Ultimo”. È il cantante che sta polverizzando record di presenze ai suoi concerti, inanellando un “tutto esaurito” dopo l’altro, per arrivare il 4 luglio allo stadio Olimpico di Roma dove lo aspettano 60 mila fan in fibrillazione. Così, dopo essere riuscita a dribblare richieste di aiuti di tutti i tipi («Vuoi che ti accompagni in macchina?», «Ti serve un assistente?», mi hanno chiesto in tantissimi) finalmente arriva il giorno dell’intervista. L’appuntamento è alla Honiro, la sua casa discografica: un locale immenso nel quartiere Tuscolano, riempito da scatoloni zeppi di felpe, magliette, bandane e poster. Tutti i gadget di Ultimo che vengono spediti in ogni parte d’Italia e che vengono venduti ai concerti partono da qui. Le pareti dell’ufficio sono tappezzate dai suoi premi: il numero di Dischi d’oro e di platino fa effetto, perché lui è così giovane: «Mi emozionano, è vero. Come mi emoziona la mia prima copertina di Sorrisi» dice Niccolò sedendosi. «Ti dispiace se metto gli occhiali da sole? La luce mi infiamma il nervo dell’occhio e mi fa venire il mal di testa... No, non è per sentirmi “figo” (ride, ndr)».

Niccolò, per scoprire il tuo segreto dobbiamo partire dall’inizio: che bambino eri?
«Mamma è una fan scatenata di Renato Zero, mi faceva sentire le sue canzoni. Ho dei video di quando già a 6 anni cantavo i pezzi di Renato. Li tengo per me, ovviamente… (ride)».

È allora che hai cominciato a studiare musica?
«In prima elementare mia madre mi chiese: “Cosa vuoi fare oltre alla scuola?”. E io: “Non lo so”. Allora mi propose la musica e mi portò in una scuola. C’erano una chitarra e un pianoforte. Presi la chitarra in mano, poi mi sedetti al pianoforte e scelsi istintivamente: “Preferisco il pianoforte”. Ho cominciato a studiare: dagli 8 ai 10 anni ho fatto i corsi preaccademici al Conservatorio di Santa Cecilia. E ho continuato a studiare fino a 19 anni».

Avevi altre passioni?
«Gli amici. Io sono sempre stato più fuori che dentro casa. Sono cresciuto “al parcheggio”».

Al parcheggio?
«Sì, quello della mia scuola elementare e media a San Basilio (il quartiere di Roma da cui proviene, ndr). Dopo le lezioni passavo il mio tempo lì con gli amici di scuola. Che poi sono quelli che mi sono rimasti oggi. Sono cinque: pochi ma buoni».

San Basilio è in periferia. Quanto conta per te essere cresciuto in quel quartiere?
«Tanto, è stata la mia salvezza. Perché noi ragazzi avevamo semplicemente la voglia di stare insieme e la nostra era amicizia vera. Gli amici sono la parte più importante della mia vita. Ma non è detto che sia sempre così. Tutto dipende da come una persona accoglie quello che ha intorno: c’è chi nasce con niente e riesce ad avere tutto, e chi nasce con tutto e poi si perde nella vita».

Vivi ancora lì?
«Non proprio lì, mi sono spostato, ma di poco».

A scuola come andavi?
«Bene, ma poi al liceo qualcosa è cambiato. Sentivo una forte pressione. Io non credo nei “piani B” nella vita. Ho sempre detto: “Voglio suonare e voglio fare il cantante”. La risposta che ricevevo dai miei genitori mi faceva stare male.“Sì, va bene la musica, ma poi nella vita che vuoi fare?”. Come a dire: è solo un hobby. E invece io volevo vivere facendo quello che amavo fare. Non credo nei consigli: uno deve seguire il proprio istinto».

Quando nasce Ultimo?
«La sensazione di essere ultimo è nata nell’adolescenza: sono stato bocciato due volte al liceo e quando ero in seconda i miei amici erano già in quarta. Mi sentivo indietro rispetto agli altri. Ma avevo il mio sogno della musica».

Oggi riempi gli stadi, ma non è sempre stato così: hai mai pensato di mollare?
«Mai. A 16 anni dicevo a mia madre: “Ho un concerto in un pub, mi accompagni?”. Lei si immaginava un concerto “vero”. Entrava nel pub e c’erano 10 persone che mentre cantavo non mi ascoltavano nemmeno. Lei mi guardava e leggevo nei suoi occhi la compassione per me, e nonostante il peso che sentivo addosso le ripetevo: “Fidati, io ci arrivo!”. E poi le serate a suonare nei locali di San Lorenzo: io volevo portare le mie canzoni e invece mi chiedevano solo cover. Ne infilavo una mia ogni dieci famose. Mi montava dentro una specie di rabbia, la sensazione di non essere compreso. E spero che questa sensazione mi rimanga perché è una grande forza per scrivere».

Il tuo sogno l’hai realizzato.
«E ho fatto tutto da solo: ho portato i miei brani a una gara di musica rap».

Musica rap?
«Già (ride). Nel 2016 ho accompagnato un mio amico rapper a Milano per partecipare a un concorso organizzato dall’etichetta Honiro, che ha principalmente artisti rap. In palio c’era un contratto. Decido di iscrivermi anch'io, anche se non avevo le basi strumentali. Chiamo mio fratello Valerio e gli dico: “Vai in camera mia, accendi il computer, vai su cartella “basi” e mandamela sul telefono”. Gli altri avevano nomi d’arte pazzeschi, non mi potevo presentare come Niccolò Moriconi. Un gruppo di amici si chiamava “Les Misérables” come il romanzo di Victor Hugo, e ho pensato: “Mi chiamo Miserabile”. Ma non mi convinceva, e meno male (ride). Alla fine mi sono iscritto come Ultimo. E ho vinto».

Come nasce una tua canzone?
«Mi metto al piano, comincio a suonare e ci metto delle parole in un inglese inventato. Poi seguendo l’assonanza le traduco in italiano».

Quanto tempo impieghi?
«Le canzoni che piacciono di più sono nate in un quarto d’ora. “Il ballo delle incertezze” l’ho scritta in dieci minuti».

E ci hai vinto Sanremo Giovani…
«È vero! (ride)».

Il tuo rapporto con la popolarità?
«Ringrazio le persone perché se riesco a fare tutti questi concerti è grazie a loro. Però non è che si possa ridurre tutto a una foto come un trofeo da mettere sui social. Incontro persone che neanche sanno chi sono e mi chiedono una foto solo perché hanno visto un altro che se la faceva. Ecco, questo mi sembra una presa in giro. Ma non mi tiro mai indietro».

Non sei una persona estroversa.
«È vero, amo la solitudine. Non sono mondano, non mi piacciono i posti affollati, preferisco stare a casa con gli amici a giocare a carte o a guardare un film».

Che passioni hai?
«Mi piace mangiare bene e sono tifoso della Roma. Amo andare in montagna d’estate e passeggiare lungo i fiumi con il mio cane, dormire in quelle bellissime case di legno. La montagna d’estate mi fa impazzire».

Il 4 luglio ci sarà “La favola”, il concerto allo stadio Olimpico.
«Non me lo so immaginare, è una cosa bellissima: il mio primo stadio, lì dove ho visto un miliardo di partite della Roma».

Prima di salire sul palco cosa fai?
«Bacio la chiave che ho al collo».

Hai appena annunciato un tour di concerti che terrai negli stadi nell’estate del 2020.
«È una grande responsabilità, spero di essere all’altezza».

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