Alberto Angela: «Mi basta mezz’ora per fare la valigia e partire»

Prepara le nuove puntate dei suoi programmi e rivela come, quand’era ancora piccolo, è nata la sua voglia d’avventura

Alberto Angela: i suoi primi documentari per la Rai li ha realizzati nel 1989 nelle pianure del Serengeti
29 Novembre 2018 alle 18:00

Riconoscimenti, premi, cittadinanze onorarie, e, soprattutto, l’affetto del pubblico. Quel pubblico che, terminate da un mese appena le puntate di «Ulisse», già lo reclama. E Alberto Angela lo accontenta: ha appena chiuso la valigia e si è rimesso in viaggio verso i luoghi straordinari protagonisti della nuova serie di «Meraviglie» in onda in primavera su Raiuno.

Alberto, portare la cultura in onda su Raiuno il sabato in prima serata con «Ulisse» è stata una scommessa vinta.  
«L’idea era audace: quando i vertici Rai me l’hanno proposto ho accettato subito pur sapendo che era rischioso. Nessuna rete pubblica in Europa lo fa. Però era anche una grande occasione. E ho pensato che fosse più importante fare cultura il sabato sera che preoccuparsi degli ascolti».

Che comunque hanno raggiunto quasi il 20%…
«Con argomenti come l’arte del Rinascimento, l’archeologia, la storia dell’Ottocento e anche una tragedia come l’Olocausto nazista ai danni degli ebrei. Il sabato sera certamente non è la sua collocazione ideale dal punto di vista di chi cerca l’ascolto, ma dal punto di vista di chi cerca le coscienze sì».

Il programma ha ottenuto un grande riscontro sui social network, con mezzo milione di interazioni: siete riusciti ad arrivare ai giovani con la cultura.
«I ragazzi la televisione non la guardano più ma “Ulisse” è un programma che li fa ritornare non tanto alla tv, ma ai temi che fanno ragionare. E questo è il più grande successo: aver stimolato i ragazzi a pensare».

Il pubblico reclama più puntate: sembra che quattro a ciclo siano poche.
«È una questione di sopravvivenza umana: realizzare una puntata è come fare un film».

Quanto tempo ci vuole per realizzare una puntata?
«Almeno un mese. Lavorando in parallelo: il giorno si gira, la sera si fa il montaggio. E il lavoro grafico procede di pari passo. Non ci si ferma mai. Anche a noi piacerebbe fare di più ma il massimo che possiamo fare è questo, puntando sulla qualità e non sulla quantità».

E in effetti lei è di nuovo in viaggio. Quanto tempo impiega a fare la valigia?  
«Una mezz’oretta. Posso farla anche al buio, so esattamente dove mettere le cose. Come fanno quelli che smontano e rimontano un motore a occhi chiusi. La difficoltà è che i nostri set possono essere uno dopo l’altro, con climi caldi, freddi, piovosi. E allora devi avere l’essenziale per qualunque situazione».

La valigia è sempre la stessa?
«Sì, una valigia storica, che mi conosce e mi segue da tanto tempo…» (ride).

Ha un suo metodo per riempirla?
«Prima stendo tutto sul letto, poi piego e metto in valigia. Sempre con la stessa disposizione».

Quello che non manca mai?
«Una piccola bussola portafortuna a cui sono affezionato. E poi, per i vestiti di scena, il ricambio: ho due capi uguali di tutto. Devo prevedere che si possano macchiare, strappare, rovinare».

Qual è il viaggio da ragazzo che l’ha portata a decidere di fare del viaggio un lavoro?
«Non ce n’è uno, io ho sempre viaggiato tanto con i miei genitori e con mia sorella, fin da bambino. Sono nato a Parigi, quando avevo due anni ci siamo trasferiti in Belgio e lì sono rimasto quattro anni. In quel periodo abbiamo fatto diversi viaggi in Normandia, in Svezia, in Olanda. Oggi arrivare in Svezia è come andare sul Grande Raccordo Anulare di Roma, ma negli anni ‘60 era la stessa cosa che andare oggi in Sudamerica. Ma di quel periodo non ho grandi ricordi. Di viaggi ne ricordo bene due, ma ero più grande».

Quali?
«Avevo 14 anni e siamo andati nel Ladakh, una regione dell’Himalaya, una zona che avevano appena aperto e noi eravamo tra i primi turisti ad arrivare. Un viaggio fatto con zaino e sacco a pelo in spalla, avevamo affittato un vecchio torpedone scassato e ricordo che l’autista pregava sempre mentre guidava su questi sentieri sterrati a strapiombo. Ma in India era una cosa normale. Fu un viaggio istruttivo».

E l’altro?
«L’anno successivo siamo andati in Indonesia a visitare un’isoletta che si chiama Nias, dove c’era una tribù di ex tagliatori di teste. Ci siamo arrivati con un giorno e una notte di navigazione a bordo di un vecchio cargo senza radio, senza scialuppe, senza niente. Andava nell’isola per portare gli uomini che prendevano il lattice per fare la gomma e restava lì per qualche giorno. Mentre loro caricavano, noi andavamo in giro per l’isola a conoscere quella popolazione».

Di certo non si trattava di una meta propriamente turistica…
«All’epoca ancora no, era il 1977. Abbiamo dormito nella casa del capo comunità come ospiti, c’erano sculture di legno ovunque. Anche lì zaini, sacchi a pelo, nessun albergo. Ma ho visto bellissime danze tribali, balli rituali con gli scudi. Ricordo tutto nitidamente. Così come ricordo il ritorno…».

Cosa avvenne?
«Eravamo di notte sul cargo e abbiamo preso una forte tempesta: ho pensato che saremmo affondati, che saremmo morti. Nessuno ci avrebbe più trovato. Il comandante me lo ricordo sotto la pioggia, al buio, che studiava una cartina tutta strappata, cercando di ricomporla come fosse un puzzle… E quando il giorno dopo abbiamo incontrato un altro cargo che era andato alla deriva, i comandanti hanno comunicato con gli specchietti. Si navigava come nell’Ottocento…».

Ricorda invece un viaggio speciale che ha fatto con i suoi figli?
«Non vorrei essere retorico ma qualunque viaggio fatto con i figli è bello perché permette a te di conoscere meglio loro e a loro di conoscere meglio te. Ne abbiamo fatti diversi, e sono stati uno più bello dell’altro. Uno dei miei preferiti è quello in Africa, in Namibia, a vedere le ultime tribù. I boscimani, che stanno scomparendo come neve al sole, gli himba, che si coprono di ocra. Con i boscimani siamo stati più giorni e hanno insegnato ai ragazzi le loro le tecniche di caccia. I miei figli hanno giocato con i coetanei di quelle tribù e si sono “scoperti” a vicenda. I giovani boscimani guardavano incuriositi i capelli lisci e biondi dei miei bambini e sono entrati subito in comunicazione tra di loro, senza tutti i problemi che ci facciamo noi adulti. Credo che queste esperienze non le scorderanno mai. Sono contento che abbiano visto qualcuno che vive ancora come vivevamo noi nel passato, con tante difficoltà. Spero che quel viaggio abbia insegnato ai miei ragazzi la tolleranza verso chi è diverso, verso chi magari non ha la loro fortuna ma ha altri modi di vivere».

A proposito di viaggi, ora è impegnato nelle riprese delle quattro nuove puntate di «Meraviglie» in onda in primavera su Raiuno.
«Continuiamo il nostro viaggio nelle meraviglie d’Italia, nei luoghi che fanno sognare e che abbiamo in casa nostra. E sono una moltitudine impressionante, capolavori che ci lasciano a bocca aperta e dimostrano quanto la nostra cultura sia importante e per questo vada tutelata. Tra le mete ci saranno la Costiera amalfitana, la Sardegna, Urbino e la Val di Noto. Andremo avanti con le riprese fino a Natale. Poi mi dedicherò a “Passaggio a Nord Ovest”, quindi a “Superquark” e, ancora, a “Ulisse” e “Stanotte a…”».

Come fa a far tutto? Anche perché non si dedica solo alla tv.
«A fine novembre esce il mio nuovo libro su Cleopatra e sul suo tempo. Una donna che ha avuto un peso importante nella Storia ed è stato uno degli ingranaggi che hanno fatto funzionare l’orologio dell’antichità. È la storia vera, ma raccontata come fosse un film».

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