Bruno Vespa: «Il vino e la storia, così coltivo le mie passioni»

Il giornalista trascorrerà le Feste in famiglia, stappando una bottiglia di Bruno dei vigneti Vespa. Intanto è uscito il suo nuovo libro, sul fascismo

Bruno Vespa
12 Dicembre 2019 alle 10:09

«Yes, at eight o’ clock please. Thank you». Per un istante Bruno Vespa si allontana dal telefono. Poi riprende: «Mi scusi, sono a Mosca a presentare i miei vini...».

E piacciono ai russi?
«Eccome. Soprattutto quello che porta il mio nome “Bruno”. È il più economico».

Perché ha scelto di dare il suo nome proprio al più economico?
«Perché sono un personaggio nazional-popolare. È il quinto vino più richiesto nelle enoteche del maggiore importatore. Ma non solo in Russia: esportiamo in 22 Paesi in tutto il mondo».

Da quando è produttore di vini?
«La “Vespa vignaioli” è nata circa 10 anni fa, ma ho sempre avuto grande interesse per il vino. Poi quando è stato possibile ho acquistato in Puglia una piccola masseria, che mia moglie ha ristrutturato con amore. Sono 31 ettari di terreno dove produciamo il Primitivo, il Fiano e il Negroamaro (www.masserialireni.com, ndr)».

Quale le piace di più?
«È come chiedere quale figlio preferisci».

Bene, allora passiamo all’altra sua creatura, quella televisiva.
«Le anticipo che “Porta a porta” avrà agli inizi di gennaio uno speciale in prima serata con i ragazzi de “Il Volo” che verranno a celebrare dallo “zio Bruno” i dieci anni di carriera».

Il programma è nato nel 1996. Se si volta indietro, qual è il momento che ricorderà per sempre?
«L’annuncio della morte di papa Giovanni Paolo II (avvenuta il 2 aprile 2005, ndr)».

E una puntata di cui va particolarmente fiero?
«Nel dolore, quella del 6 aprile del 2009 sul terremoto dell’Aquila. La diretta dall’elicottero resta una delle cose più forti».

E quella volta in cui si è trovato in difficoltà?
«Ricordo le polemiche che suscitò l’intervista al figlio di Riina, Salvo. Intervista che rifarei esattamente negli stessi termini, perché si capì per la prima volta quale impunità ebbe Riina andando a visitare in ospedale la moglie che aveva appena partorito, o andando in vacanza con i figli. Totò Riina stava sotto l’ombrellone con la sua famiglia. E tutto ciò si è capito soltanto con quella testimonianza».

È quasi Natale: la tradizione alla quale non rinuncia?
«Sicuramente alla cena del 24 e al pranzo del 25 con la famiglia al completo».

Cosa porterete in tavola?
«Il cenone della Vigilia sarà a base di pesce, con un assaggio di capitone, che ormai è desueto ma per me è una tradizione irrinunciabile. E si chiuderà sempre con il torrone al cioccolato dell’Aquila. Nel pranzo di Natale invece non può mancare il brodo con il cappone».

Fa l’albero e il presepe?
«Sì, ci tengo parecchio, soprattutto al presepe. Da anni ne ho uno molto bello fatto da una scultrice siciliana. È sobrio, senza “effetti speciali”, ma le statuine sono meravigliose. Mio padre era bravissimo a fare il presepe. Peccato che io non abbia la sua stessa manualità. Infatti non lo aiutavo per non fare danni... (ride). Lui ogni anno si dedicava alla preparazione con cura. La neve con i fiocchi di ovatta, l’acqua per la cascatina, il brecciolino per le stradine, e poi il muschio... Sento ancora quel profumo nel naso».

Il regalo che ha amato di più da bambino?
«Mi piacevano i film western e vestirmi da Tex Willer: quando arrivavano il cappello, la cartucciera, il fucile e la camicia da cowboy ero un bambino felice».

E quello che vorrebbe ricevere quest’anno?
«In realtà più che riceverli, io adoro farli i regali. Li scelgo tutti personalmente con grande cura, mi ci vuole un sacco di tempo e parto con largo anticipo».

È già a buon punto allora?
«Li ho già impacchettati quasi tutti».

Tra passato, presente e futuro

Il nuovo libro di Bruno Vespa "Perché l'Italia diventò fascista" (Mondadori, 349 pagine, 20 euro)

È il nuovo libro di Bruno Vespa e si intitola “Perché l’Italia diventò fascista”, con un sottotitolo importante: “E perché il fascismo non può tornare”. Il giornalista racconta come e perché tre anni di “guerra civile” (1919-1922) consegnarono il potere a Benito Mussolini, l’uomo che l’avrebbe mantenuto per un ventennio. E perché la “democrazia autoritaria” del primo biennio (1923-1924) si trasformò in dittatura dopo il delitto Matteotti (1924).

Bruno, come nasce l’idea di questo libro?
«Questo libro è nato perché la gente secondo me non sa davvero come e perché il fascismo è salito al potere. Il fascismo è andato al potere per gli errori che hanno commesso le forze antifasciste e per gli errori che a suo tempo commise la Sinistra. Dopo la guerra civile anche gli antifascisti come Croce e Salvemini e persone insospettabili come Giolitti e Nitti dissero: “Questo è il male minore”».

Il sottotitolo del libro è “E perché il fascismo non può tornare”.
«Abbiamo anticorpi solidi e questo ci impedisce di tornare a una dittatura, è ovvio. È impensabile immaginare che potremmo sposare un sistema che non dico non ci faccia più votare, ma che limiti delle libertà acquisite con tanta fatica».

È un dibattito attuale nel nostro Paese.
«E di questo parlo nella seconda parte del libro, che è freschissimo, aggiornato ai primi di novembre, dopo le elezioni in Umbria. Nella mia analisi si parla dei retroscena del cambiamento di maggioranza e si spiega per quali ragioni un conto è il sovranismo e un conto è il fascismo».

Nel libro c’è una citazione che colpisce: “I fascismi non prendono il potere a spallate ma gradualmente e con il consenso”. È proprio così?
«Certo. Basti pensare alla Germania e all’ascesa di Hitler: anche lui ha conquistato il potere grazie al consenso».

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