Il comico milanese racconta la sua carriera, da serio ragioniere allo show comico che rivoluzionò per sempre la tv

«Beruschi? Dove si trova? Io sono al parcheggio 47».«Venga al 35». Enrico Beruschi ha scelto, per il nostro incontro, l’ex stabilimento Alfa Romeo di Arese, alle porte di Milano, oggi un enorme centro commerciale: 120 mila metri quadri, 200 negozi, un parcheggio da 6.000 auto. Non proprio il classico posticino tranquillo dove fare due chiacchiere. Alla fine “il ragioniere” arriva e ci accampiamo in uno dei ristoranti, dove l’ex mattatore di “Drive in” si diverte a mettere a disagio le cameriere: «Signorina, in che senso “cosa le porto”? Sa, io sono un uomo sposato, non sono abituato a scegliere. Mangio quello che mi dà mia moglie».
In tv era il ragionier Beruschi. Il titolo ha basi reali?
«Ho conseguito il diploma nel 1960 e mi sono ritrovato con 34 offerte di lavoro. Quattro erano di banche: nel 1960 dove vuole che andasse un ragioniere? Così sono entrato in banca. Dopo sono stato in una ditta tessile, ho fatto il militare come ufficiale dei carristi e ho lavorato in un noto biscottificio, dove sono arrivato a essere vicedirettore».
Al cabaret, invece, come c’è arrivato?
«Cochi e Renato erano miei compagni di scuola e andavo a vederli al Derby, il tempio del cabaret milanese. Avevo fama di bravo barzellettiere, ma a una specie di provino mi avevano detto che sì, la mimica era buona, ma... Finita lì. Poi un giorno Walter Valdi, l’anima artistica del locale, mi incontra all’ingresso e mi fa: “Dici che sai far ridere? Vieni dentro”».
Era preparato?
«Quando penso al terrore, penso a quel momento. Ci ho messo cinque minuti a dire buonasera, ma raccontai tre barzellette e andò bene. Entrai nel gruppo: oltre a Cochi e Renato c’erano Gianfranco Funari, Boris Makaresko, Dino Sarti. Makaresko m’inserì nella sua apertura. Dicevo una o due battute e sparivo, ma la gente cominciò a incuriosirsi. Ecco, vede, io so di non essere mai stato alto, bello e biondo, però ho una faccia: rimane impressa».
Aveva una doppia vita.
«Per due anni di giorno ero un serissimo vicedirettore, anche duro, e di notte facevo il pirla, come diciamo a Milano. Al Derby ho cominciato a farmi un nome. Così, quando mi ha chiamato la Rai per fare una cosina in un programma per bambini, ho lasciato l’azienda».
Suppongo che fu considerata una pazzia.
«E lo era. Come vicedirettore guadagnavo 300 mila lire. In Rai me ne diedero 20 mila al giorno per due giorni. Il programma andò male, però avevo messo un piede in Rai. Facevo piccole cose... Per fortuna che c’è Pippo Baudo».
Oddio, Baudo ha inventato anche lei?
«Nel 1977 Pippo voleva fare un programma con volti nuovi e convinse Bruno Voglino a realizzare “Non stop”. Mi arruolarono con tanti altri comici: eravamo tutti sconosciuti. Ci spedirono a Torino, ai margini dell’impero. Pensi che i discografici non mandavano i cantanti in trasmissione... Ma il regista Enzo Trapani era in grande fase creativa e quel programma ha cambiato la comicità in tv. E anche le nostre vite: da 150 mila lire a serata passai a 400, 800, anche un milione di lire».
Con lei c’era gente come I Gatti di Vicolo Miracoli e La smorfia, ovvero Massimo Troisi, Enzo De Caro e Lello Arena.
«I tre di “La smorfia” erano ragazzi semplici. Parlavano sempre in dialetto. Mangiavamo in una trattoria e io dicevo: “Se riuscite a dire una frase in italiano pago il pranzo”. Sa, le paghe erano basse e loro dovevano dividere in tre».
Da lì, “La sberla”, con Gianfranco D’Angelo, “Luna Park” di Baudo, con Grillo, “Tutto compreso”. Nel 1979 ha partecipato perfino al Festival di Sanremo.
«Una follia. Nessun non cantante c’era mai andato. Sul palco eravamo in dieci. Nel coro avevo anche un turco che mi sosteneva nelle parti più difficili. Dimenticai la prima strofa e improvvisai, ma per fortuna non se ne accorse nessuno. Mike Bongiorno continuava a dirmi: “Non cambiarti, resta in smoking, sei terzo”. Poi alla fine arrivai quinto. Non so che cosa è successo...».
Anni 80: arriva la tv commerciale e lei c’è.
«Andai a vedere Liza Minnelli a Milano e mi sentii chiamare. Era Silvio Berlusconi: “Hai visto che ho fatto la tv sul serio? Cosa aspetti a farti vedere?”. Mi feci vedere e dopo spiegai alla Rai che andavo in un posto dove avrei guadagnato cinque volte tanto. Con l’anticipo ho pagato alcuni debiti».
E va a fare “Drive in”. Programma di culto.
«A Italia 1 c’era questo giovane regista, Giancarlo Nicotra, con cui in Rai avevo fatto “Tutto compreso”. Lo convinsi a mettere su un programma simile. Io mi sarei occupato dei comici, lui della regia. Per i testi ci rivolgemmo a un tipo geniale, Antonio Ricci, che era l’autore di Grillo e aveva scritto anche delle cose per me».
“Drive in” era pieno di donne stupende: Carmen Russo, Lory Del Santo, Tinì Cansino, le Fast Food...
«Già. Le ragazze Fast Food vogliono denunciarmi: dicono che sono uno dei pochi che non ci ha mai provato».
Oggi si sente dimenticato dalla tv?
«Un pochino sì, ma quando la guardo non mi diverto. Tempo fa mi hanno invitato a una trasmissione piena di artisti in difficoltà che si lamentavano delle pensioni. Ma io non sono in quelle condizioni lì. Prima della pandemia lavoravo a teatro!». È tempo di andare. Uscendo dal locale l’ultima battuta del ragioniere è per la cassiera: «Signorina, mi sono innamorato di lei. Vuole essere mia nuora?».