Ezio Greggio: «Sono così felice di poter aiutare i profughi»

Lo storico conduttore di "Striscia" è l’autore di un grande gesto di solidarietà verso le vittime della guerra. E ci spiega come imitarlo

31 Marzo 2022 alle 07:56

Un pullman che arriva davanti alla sede Mediaset di Cologno Monzese. Nel parcheggio, Ezio Greggio che aspetta. Non è la scena di un set, ma di una grande opera di solidarietà. Su quel pullman ci sono 51 persone in fuga dalla guerra in Ucraina, che il popolare showman ha aiutato a trovare assistenza e rifugio. Nella speranza che un giorno possano tornare nelle loro case, in una Ucraina in pace.

Ezio, lei era lì quando sono arrivati i profughi. Cosa ha visto e cosa ha provato?
«Per me è stata una gioia e un’emozione difficili da descrivere. C’erano 51 donne e bambini sfiniti dal viaggio di 20 ore, ma contenti di essere in salvo. Era fortissimo il contrasto tra i due sentimenti: da una parte, la gratitudine e anche lo stupore per aver trovato tante persone che li aiutano; dall’altra, la disperazione per aver perso tutto. Ricordo in particolare una ragazza in lacrime, con la nostra traduttrice che la abbracciava e cercava di consolarla: ha raccontato che suo fratello di 18 anni era rimasto in Ucraina per combattere... Per i bambini avevamo preparato dolcetti, regali e uova di Pasqua. È stato bello riuscire a strappar loro un sorriso. Uno si teneva stretto in braccio il suo cagnolino. Il tempo di riposarsi un po’, salutarsi, e poi sono tutti partiti per la destinazione finale: molti saranno accolti da amici e parenti che già vivono in Italia. E noi stiamo già organizzando altri pullman. All’andata porteranno medicinali, al ritorno i profughi».

Come è nata questa iniziativa?
«Dall’esempio di un amico, Francesco Nespega, che avevo incontrato a Mediaset. Lui conosceva una persona che ha già lavorato per la Protezione civile e adesso fa il volontario nel campo profughi di Przemysl, al confine tra la Polonia e l’Ucraina. Quando ha saputo che cercavano un modo per raggiungere un posto sicuro, è andato a soccorrere quelle persone con la sua compagna e un minivan da nove posti. Allora ho coinvolto la mia associazione e, insieme con la Comunità di Sant’Egidio, abbiamo organizzato il nostro viaggio. E lancio un appello: se ci sono associazioni o gruppi di amici che vogliono imitarci, ben vengano. L’importante è contattare le associazioni presenti sul posto, come la Croce rossa italiana o la Comunità di Sant’Egidio. E organizzare l’accoglienza in anticipo: quando queste persone arrivano qui devono già sapere dove saranno ospitate».

E ora che succederà?
«La speranza è che la guerra finisca in fretta e i rifugiati possano tornare nelle loro case. Per chi la ritroverà ancora intera. Perché i racconti delle distruzioni sono terrificanti. Mi hanno ricordato quelli di mio padre Nereo, che durante la Seconda guerra mondiale è stato prigioniero per due anni e mezzo nei campi di concentramento in Germania e Polonia. Il valore della solidarietà l’ho imparato da lui, che mi raccontava delle persone che l’hanno aiutato a tornare in Italia».

Come andò?
«Dopo la liberazione dai campi, ognuno si arrangiava come poteva. Mio padre cominciò un lungo viaggio a piedi verso Cossato, il paesino in provincia di Biella dove poi sono nato anch’io, per raggiungere sua madre. Aveva poco più di 20 anni. Per sei mesi attraversò un’Europa devastata e molte persone gli offrirono ospitalità e da mangiare. Una addirittura gli regalò un cavallo, con cui fece parecchia strada, prima di venderlo in cambio di un biglietto del treno... è tutto raccontato in un libro che papà ha scritto. Non è mai stato pubblicato, lo teniamo per noi, per la famiglia».

Ora invece è lei che aiuta chi fugge dalla distruzione.
«Tutti dovremmo darci da fare. Nei comuni, nelle prefetture si può chiedere come aiutare. E anche mandare aiuti e offerte. L’importante è rivolgersi sempre ad associazioni serie. I volontari con cui siamo in contatto ci dicono che i vestiti non servono più, c’è invece un gran bisogno di medicinali: ci hanno dato una lista che non finiva più...».

Lei però la solidarietà la pratica già da anni, con la sua “Associazione Ezio Greggio”.
«Sì, sosteniamo la cura dei neonati prematuri: servono incubatrici per aiutare questi bambini che spesso pesano solo un chilo. Ne ho visti tanti dentro alle apparecchiature donate e ora alcuni di loro mi fermano per strada, o vengono a salutarmi a “Striscia”. Mi raccontano in che ospedale sono stati salvati, mi abbracciano e lo ammetto: mi commuovo sempre. In 25 anni di attività abbiamo fatto donazioni a oltre 70 ospedali italiani e ora aiutiamo anche ospedali di altre parti del mondo. Per esempio abbiamo fatto arrivare nove quintali di medicinali in Libano, dopo la tremenda esplosione che due anni fa ha completamente devastato il porto di Beirut. Chi vuole associarsi e fare una donazione può trovare tutte le informazioni sul sito eziogreggio.mc, alla voce “Solidarietà”».

E ora cosa pensa di questa guerra? Che cosa ci aspetta?
«Guardi, è una follia. Ho amici ucraini che sono disperati, ma conosco anche tante persone in Russia, e sono contrarie alla guerra. Ovviamente non possono dirlo apertamente perché lì c’è una dittatura, non si può manifestare come da noi. Chi lo fa rischia grosso. Ma credo che la maggioranza dei russi sia contraria. Questa è la guerra di Putin e questo signore va fermato con le sanzioni e la diplomazia. L’Europa deve mostrarsi forte e coraggiosa come le vittime che resistono all’invasione».

Tutto questo è arrivato come un fulmine a ciel sereno mentre stava preparando il Festival della commedia di Monte-Carlo, in programma dal 25 al 30 aprile. Ma si può ancora sorridere in un clima del genere?
«A maggior ragione! L’umorismo è il contrario della violenza, la cultura dell’ironia è il contrario di quella della forza bruta. Si dice: “The show must go on” e io aggiungo: “Life must go on”. Non dobbiamo rinunciare a vivere, a sorridere e a essere ottimisti. Ho ricevuto anche il sostegno del principe Alberto, anche lui sta aiutando le vittime della guerra. Siamo riusciti a fare il Festival anche nei giorni del Covid, quando la sala sembrava più una clinica che un cinema. E ci riusciremo anche adesso».

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