Federico Fazzuoli: «Non ho mai smesso di scoprire luoghi nuovi»

Siamo andati a cercare lo storico conduttore di "Linea verde". Che ora segue dei progetti anche in Oman

Federico Fazzuoli a “Linea verde” nei primi Anni 90
8 Aprile 2021 alle 08:51

Sentivi il rumore dell’elicottero e capivi che era domenica. Federico Fazzuoli stava sorvolando l’Agro Pontino, il Monferrato o la Costiera Amalfitana, accompagnato da sindaci in giacca e cravatta che decantavano biodiversità ed eccellenze agroalimentari dei loro territori.

Era “Linea verde”: un rito che dal 1981 al 1994 con Fazzuoli, a mezzogiorno, incollava su Raiuno fino a nove milioni di italiani. Al punto che il momento più importante di quel giorno, la Santa Messa, era stato anticipato da molti parroci alle ore 11. Oggi “Linea verde” c’è ancora, ma il suo inventore, l’uomo coi baffi, dov’è? «In questo momento mi trovo in Oman» ci dice al telefono.

Che ci fa nel Sultanato?
«È da una decina d’anni che, periodicamente, partecipo a progetti in questo Paese. Quello che sto seguendo ambisce a ricostruirne la storia. Qui mancano monumenti e altre forme d’arte che ci possano consegnare le immagini del passato. Le abbiamo ricreate attraverso 300 quadri».

E io che la pensavo nella sua fattoria, a godersi la campagna toscana...
«Le occasioni vanno colte, ma anche la fattoria è importante. Sono nato in quella casa. Era un’azienda di famiglia e quando è morto mio padre, con mia moglie e i miei tre figli abbiamo scelto di continuare l’attività cercando di migliorarla. Facciamo il vino, l’olio, gestiamo l’agriturismo, alleviamo i cavalli».

Per la storia della tv lei è “quello di Linea verde”. Come ha iniziato?
«Ero in vacanza nelle Marche quando nel 1968 l’Urss ha invaso la Cecoslovacchia. Il programma della Rai “Europa giovani” voleva sentire la voce dei giovani cecoslovacchi, appunto, ma in Italia all’epoca non se ne trovavano. C’era poco tempo, si venne a sapere che la squadra di basket del Brno era in un albergo di Porto San Giorgio e, tramite un amico, mi è stato chiesto di provare a intervistarli. Ci sono riuscito, mentre la redazione di Ancona no, ed è stato uno scoop. Così mi hanno chiamato in pianta stabile».

A fare che cosa?
«Lavoravo al servizio “Storia”, parte della direzione dei Programmi culturali. Realizzavo sceneggiati e inchieste. Ho collaborato con Arrigo Levi nel programma “Quel giorno”. Un grande maestro».

Niente a che vedere con l’agricoltura.
«Quella è arrivata nel 1981, quando Giovanni Minoli ha lasciato “Agricoltura domani” per passare a Raidue. Il modo di raccontare il mondo agricolo aveva bisogno di fare un salto in avanti e ho accettato la sfida. Ho pensato che la prima cosa di cui occuparmi fosse proprio togliere la parola “agricoltura” dal titolo. Avevo carta bianca. La sentivamo come una specie di missione: la spinta veniva dal fatto che venivamo pagati dai telespettatori attraverso il canone, quindi dovevamo fare tutto al meglio. Se avevo bisogno di un consulente lo prendevo, se serviva un elicottero lo noleggiavo».

E ne ha noleggiati tanti...
«Più di mille di sicuro. È un mezzo straordinario. E poi avevo un operatore, Albertini, bravissimo: smontò il portellone e via».

Qual è stato il segreto di tanto successo?
«La continuità, aver potuto costruire un rapporto piano piano negli anni. Quando si fa una trasmissione non si deve insegnare il proprio sapere, ma andare a scoprire le cose. In questo modo si fanno le stesse domande che farebbero gli spettatori. Noi li abbiamo coinvolti, resi consapevoli. Parlavamo di antibiotici negli allevamenti, di prodotti chimici nella coltivazione. Dicevamo alla gente: “Attenti a che cosa mangiate!”. Abbiamo subito anche parecchie pressioni».

Per esempio?
«Dopo Chernobyl. I miei consulenti mi davano dati che stridevano con quelli diffusi dal governo, che aveva interesse a far finire l’emergenza e a dire che si poteva mangiare tutto. Sono stato convocato al Ministero dell’agricoltura dove mi è stato detto che dovevamo considerare l’emergenza chiusa e se non ci fossimo adeguati avremmo potuto essere perseguiti penalmente».

E lei?
«L’ho comunicato al direttore Emmanuele Milano. Che mi ha risposto: “Sei sicuro? Allora vai avanti. Prima pensiamo alla gente, poi al Palazzo”».

Come le è venuto in mente di spedire la Spaak e la Cinquetti nelle stalle?
«Le ho scelte perché non c’entravano nulla, erano persone che non t’aspetti di vedere in quel contesto. Infatti, mi hanno criticato: “Ma che c’entra la Spaak, così snob?”. Invece l’idea era quella di creare, attraverso loro, un momento più leggero. E ha funzionato».

Il successo ha portato tante imitazioni della concorrenza.
«Hanno dedotto che si potevano fare ascolti. Non mi dava fastidio, era la conferma che queste tematiche funzionavano. Io avevo capito, per esempio, che l’alimentazione era importante e che bisognava fare una sorta di educazione alimentare di massa».

Come è stato diventare popolare?
«È stato graduale, non improvviso. C’era questo rapporto molto forte con la gente. Mi chiamavano tutti, e ancora oggi è così, Federico. “Sei uno di famiglia, stai tutte le domeniche a pranzo con noi” mi dicevano».

Sa quanto l’invidiavo davanti a quelle tavolate incredibili?
«Erano apparecchiate con cibo che magari, per esigenze televisive, stava su quei tavoli per tre, quattro ore. A volte si passava una spruzzata d’acqua per ridare vivacità e colore».

Nel 1994 c’è stato l’addio alla Rai. Come è andata?
«Il direttore Milano è passato a Telemontecarlo e mi ha portato con sé. Quello doveva essere il terzo polo televisivo: c’erano Biagi e Santoro, tra gli altri. Era un bel sogno».

E invece?
«Grande entusiasmo all’inizio, poi l’azionista, per varie vicende, ha smesso d’investire, e sono tornato in Rai».

Ma senza più agricoltura.
«Era inutile, il mio spazio era occupato. Ho proposto di raccontare l’arte ed è nato “Made in Italy”, che è andato molto bene».

Le piacciono le “linee verdi” di oggi?
«Mano a mano, sono state fatte modifiche di contenuto: si sono presi gli argomenti più popolari, come la cucina, e si sono dilatati. Il focus si è spostato su nuovi temi e adattato ai tempi».

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