Sabato 11 maggio parte il 102° Giro d’Italia. E il grande campione del passato ci racconta i segreti della corsa
Ne ha corsi 14. Tre li ha vinti e in altri nove è salito sul podio (record imbattuto) pur avendo trovato sulla sua strada «una brutta bestia come Eddy Merckx. Uno che andava sempre forte».
Felice Gimondi, a proposito di Giro d’Italia, sa decisamente il fatto suo. Ex ciclista su strada, pistard e dirigente sportivo, ha corso da professionista dal 1965 al 1979 vincendo in salita, a cronometro e in volata. È uno dei sette corridori ad aver vinto tutti e tre i grandi Giri, cioè Giro d’Italia, Tour de France e Vuelta di Spagna. Nel 1973 è stato anche Campione del mondo su strada.
Quando comincia il Giro d’Italia per un corridore?
«A parte la preparazione si arriva un paio di giorni prima del via per “settarsi” un po’. Prima si studia l’altimetria delle tappe. Io cercavo di capire quali fossero quelle più impegnative, dove dovevo essere al massimo. Magari partivo un po’ più tranquillamente, soprattutto se andavamo verso il Sud».
Perché?
«Lì di grandi salite non ce ne sono, però si viveva un’esperienza umanamente incredibile. Ecco, là era veramente una festa. Bambini con le bandierine, i cappellini... Poi appena si cominciava a salire c’erano meno possibilità di recepire questi aspetti perché si cominciava a pensare alle montagne, e allora diventava un problema tecnico. Anche qui c’erano molti tifosi, però era differente. Erano più preparati, venivano per la corsa, mentre al Sud magari volevano solo vederti».
Bella la folla lungo la strada...
«Non sempre. Sapesse, specie al Sud, certe secchiate d’acqua che ti lanciavano mentre andavi a 50 all’ora!»
Immagino che i ciclisti oggi abbiano più comfort.
«Mah! Le strade non sono migliorate: di ben asfaltate non ce ne sono neppure per le auto. Certo, hanno più tecnologia, a cominciare dalla bici, che è fatta di carbonio. Si può scendere a sei chili di peso. Le nostre pesavano anche dieci chili! Però la fatica alla fine è sempre quella. Specialmente in salita. Però oggi hanno pullman incredibili: cominciano a fare i massaggi già a bordo, hanno le docce. Noi dovevamo arrivare e tante volte cercare anche un albergo. E poi non hanno più problemi con l’acqua».
Cos’è cambiato?
«Adesso sono in collegamento continuo con la squadra, è tutto semplice. Ai miei tempi a volte finiva l’acqua e assaltavamo i bar. Razziavamo tutto: “Tranquilla signora” dicevamo alla barista, “paga Torriani” (lo storico organizzatore del Giro, ndr). Col cavolo che pagava!».
Cos’altro succede nelle lunghe ore in gruppo?
«Si parla del più e del meno, così ci si dimentica un po’ della fatica. Certo, quando cominci a vedere i picchi non c’è più tempo».
Si parla inglese?
«Oggi sì, ma ai miei tempi la lingua ufficiale era il francese. Io ho dovuto impararlo, anche se ho la quinta elementare. Con l’inglese, invece, ho sempre tribolato: andai in America per i Mondiali a Colorado Springs e rischiai di perdere l’aereo».
In bici si va forte, senza protezioni per il corpo. Non si ha mai paura?
«Paura mai, non ci pensi. Il ciclista difficilmente sbaglia: il problema semmai è il guasto meccanico, se scoppia una gomma sono guai seri».
Le cadute ci sono.
«Se capita ti rialzi e vai, le ferite le guardi alla sera. Non è come il calciatore che sta giù dieci minuti per far passare il tempo».
Oggi si corre tanto, significa stare lontani da casa anche 120-150 giorni.
«Si è sempre via. Io andai in ritiro appena sposato. Mi ero sposato a novembre e rientrai il 19 marzo! È una vita da emigrante. Oggi si va in Malesia, Argentina, Africa».
La sera, in albergo, tutti a nanna o c’è qualcuno più...“esuberante”?
«Si è talmente stanchi... Una delle mie frasi era: “Anche quello che ha inventato il letto non era un cretino”».
Perché fra tanti sport sceglierne uno così duro?
«L’aria in faccia, sai che bella? Soprattutto quando alzi le braccia dopo una vittoria».
Dicono che i ciclisti fanno una vita da sorvegliati speciali.
«In un certo senso sì. Oggi ci sono i controlli anti-doping a sorpresa anche a casa. Se vai al ristorante con tua moglie lo devi comunicare all’Uci, devono sempre sapere dove sei».
Eppure c’è chi bara...
«Guardi, prendevamo qualcosa anche noi, i primi due anni in cui ho corso non c’era neppure il controllo. Ma era tutta roba legale e innocua: caffeina, Micoren. Nulla a che vedere con le porcherie di adesso. Non ne vale la pena, la posta non è mai così alta da mettere a rischio la propria vita».
I ciclisti guadagnano briciole rispetto ai calciatori.
«Qualcuno guadagna. Io nel 1965, quando vinsi il Tour, prendevo 180 mila lire al mese. Oggi Nibali prende tre milioni e mezzo all’anno. Per noi il ciclismo era un mestiere, un’opportunità. Mio padre faceva il camionista, mia mamma la postina».
Lei, invece, dalla Val Brembana ha girato il mondo.
«L’ho girato sulla bici, senza vederlo. Parigi, Londra, Barcellona, le ho visitate con la famiglia. A Barcellona, sul Montjuïc, ho detto a mio nipote: qui è dove il nonno ha vinto il titolo mondiale».