Mentre parte su Raiuno la seconda stagione della fiction «I bastardi di Pizzofalcone», ambientata a Napoli, l’attore si racconta a Sorrisi
«Comme sì bellillo...» urla la signora affacciata al balcone in piazzetta del Grande Archivio. «Ma tu sì ’o figlio ’e Gasmàn?» domanda un signore con i capelli bianchi a Vico del Fico al Purgatorio. A via dei Tribunali un ragazzo vestito da rapper chiede «Ce facimmo ’nu selfi?» e poi ci rincorre spiegando: «Scusate, non è venuto, tengo ’o telefonino a llegna...». Siamo nel «ventre» di Napoli in compagnia di Alessandro Gassmann. Scattiamo le foto nei luoghi in cui è stata girata la seconda stagione di «I bastardi di Pizzofalcone», in onda su Raiuno a partire da lunedì 8 ottobre. L’abbraccio che la città riserva all’attore, protagonista della serie nei panni dell’ispettore Giuseppe Lojacono, è caloroso. E lui ricambia con gentilezza, con il sorriso e con una battuta affettuosa per tutti.
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Alessandro, qui a Napoli la amano quasi come Maradona ai tempi d’oro...
«È una città meravigliosa che amo e che ho imparato a conoscere proprio grazie ai “Bastardi”. Ho trascorso qui sei mesi per la prima serie e altrettanti per la seconda. E ho ritrovato fra la gente quell’umanità che purtroppo Roma, la mia bellissima città, ha un po’ perso e che spero possa ritrovare in futuro».
La serie è tratta dai libri di Maurizio de Giovanni, un napoletano doc.
«Ed è vissuta dai napoletani in modo viscerale, ne sono orgogliosi perché racconta tutte le stratificazioni della città attraverso i vari casi che la squadra del commissariato di Pizzofalcone deve risolvere. È un affresco completo. Jamm, pijammc’ o’cafè (esclama in un impeccabile dialetto partenopeo, ndr)».
Ha pure imparato «la lingua»...
«Macché. La mia inflessione è terribile (non è vero, ndr)».
Ha preso qualche usanza del posto?
«Ho imparato a bere l’acqua prima del caffè. Qui il caffè è una cosa seria. Te lo servono sempre con un bicchiere d’acqua e se lo bevi dopo il barista si arrabbia. Ho sentito una volta un barista dire a una signora che aveva fatto questo errore: “Signo’ il caffè glielo offro io, ma qui non ci venite più...”».
Cosa le piace di più del personaggio di Lojacono?
«Lo spirito di osservazione, la capacità di riflessione e la tenacia, è uno che non si arrende mai alla banalità del ragionamento. E poi la sua umiltà e generosità. Ma anche i difetti. È introverso e ha delle difficoltà comportamentali nei confronti della sfera femminile: non riesce a esprimere quello che vorrebbe dire alla donna che ama e a sua figlia».
Lei avrebbe potuto fare il poliziotto nella vita?
«Ho un buono spirito di osservazione e intuito nel capire le persone ma non mi ritengo un cuor di leone e per fare il poliziotto ci vuole coraggio».
Spesso nel riconoscerla per strada citano suo papà Vittorio. Ci regala un ricordo privato di suo padre?
«Durante le tournée teatrali facevamo i viaggi in auto insieme. Io insistevo per guidare perché lui non era un grande pilota... Ricordo i lunghi silenzi. Si stava anche due, tre ore senza parlare, era un uomo di poche parole. Il nostro era un rapporto più fisico che parlato. Ci abbracciavamo spesso, dormivamo vicini. Avere un contatto fisico lo rassicurava moltissimo. Succede anche a me con mio figlio Leo».
Lo abbiamo visto esibirsi con successo sul palco di «X Factor».
«Non mi aveva detto niente. Mi ha informato solo dopo aver passato la prima fase delle audizioni. Io gli ho detto: “Bravo, sono con te. Vai pure avanti ma devi finire l’università, dove fra l’altro hai buoni risultati”. Lui è d’accordo».
E suo padre aveva assecondato la sua voglia di fare l’attore?
«Io non volevo fare niente. Non ho fatto l’università, sono stato una capra a scuola. Ero sportivo perché giocavo a pallacanestro, ma ero uno scavezzacollo: ragazze, discoteche, vivevo di notte. Lavoravo come buttafuori al Piper: mi piaceva fare a botte e così monetizzavo per comprare la miscela per la mia Vespa truccata. Una vita fallita».
E poi che cos’è cambiato?
«Mio padre, che mi ha dato un’educazione severa, mi ha obbligato a fare il servizio militare e poi mi ha preso per le orecchie e portato quasi controvoglia in teatro a 19 anni a fare il coprotagonista con lui di “Affabulazione” di Pier Paolo Pasolini. È stato un successo fragoroso e da lì ho iniziato ad accettare le cose che mi arrivavano perché avevo un nome importante, sfruttandole biecamente perché facevo film di cui non mi importava niente. Ma a forza di sentirmi dire: “È bello, ha un bel nome ma non è capace”, perché ero davvero scarso, ho avuto un moto di orgoglio e ho cominciato a studiare, a impegnarmi. E piano piano sono cambiato».
È persino diventato «casalingo»?
«Sì (ride). Sono un campione nel caricare la lavapiatti e sono imbattibile nel riempire al millimetro il bagagliaio della macchina. Invece sono pessimo nel rifare il letto e stirare».
E in cucina?
«Me la cavo bene, sono un “primista”, cucino soprattutto la pasta. Ma siamo tutti bravi in famiglia, anche mia moglie e Leo, che ai fornelli si rilassa. Per coccolarci prepara “la filacciosa”, una pasta con pomodoro, parmigiano, mozzarella che si scioglie dentro, basilico e peperoncino».
Oggi, a 53 anni, si guarda allo specchio e cosa si dice?
«Meno male che non ci vedo più bene così non mi accorgo di quanto vecchio e brutto sono diventato!».
Seriamente...
«Una cosa che ho imparato è a rassicurarmi. Penso solo a quello che devo fare nella giornata in corso e non a quello che mi aspetta domani. Questo mi rende tutto più facile. Ma ci sono voluti anni di analisi per arrivare a questo».
C’è un consiglio che le dava suo padre e che lei ripete a suo figlio?
«Nella vita non prendere mai scorciatoie e se hai la possibilità di raggiungere un obiettivo cerca di raggiungere quello che richiede uno sforzo maggiore. E poi gli ricordo, anche in maniera un po’ ossessiva come faceva mio padre con me, di ripetersi ogni mattina: “Sono fortunato: sono vivo, sano, ho un tetto sulla testa, che è anche un bel tetto”. E io poi faccio pure un mestiere che amo. Di cosa mi posso lamentare? Quindi sono felice».