La fiction di Raiuno ha ridestato l’interesse per i “secoli bui”. Abbiamo chiesto a un esperto com’era la vita di tutti i giorni

Che mistero, il Medioevo. E che fatica! A vedere come vivevano i personaggi che ruotano attorno all’abbazia di “Il nome della rosa” c’era poco da stare allegri. Ma la vita nel 1300, quando è ambientata la fiction di Raiuno, era davvero così dura? Lo abbiamo chiesto ad Alessandro Barbero, storico e conduttore di “a.C.d.C.”, ogni giovedì su Rai Storia. «Una premessa. Quella medievale era una società complessa con tante stratificazioni: una borghesia ricca composta da commercianti, usurai, notai, piccoli uomini d’affari. Poi gli artigiani, fino ad arrivare ai contadini che erano circa il 90% della popolazione. La maggior parte della gente viveva decentemente, non c’era la povertà che ci si immagina».
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A letto senza pigiama
«I letti somigliavano ai nostri, con materassi di lana, crine di cavallo o paglia per i più poveri, appoggiati spesso su un cassone di legno. C’erano già i cuscini, le lenzuola, le federe e delle coperte pesantissime. Erano letti molto caldi e forse per questo si dormiva nudi. Cosa che favoriva i rapporti sessuali. D’altra parte, la sera a letto o si faceva quello o si chiacchierava».
La sveglia? “Din don” e “cip cip”
«Ci si alzava con la luce del sole, seguendo i ritmi naturali. Anche se d’inverno, diminuendo il lavoro nei campi, non era importante alzarsi presto. D’estate ci si svegliava con il canto degli uccellini, ma anche con le campane. Del resto i monaci pregavano a orari fissi e ciò era annunciato proprio dalle campane. La gente, quindi, si regolava con quelle, anche in città per stabilire l’orario di lavoro. Nel 1300 comparvero gli orologi sulle torri dei comuni: per la prima volta il tempo veniva scandito dalle autorità civili e non dalla Chiesa. Mentre per l’illuminazione si usavano le candele, ma erano care».
Sempre la solita zuppa
«Non esistevano caffè e tè. C’era il latte, ma è verosimile che si iniziasse la giornata con una zuppa a base di pane e cereali, per i più poveri, verdura o carne, che veniva poi riproposta a pranzo e cena. I montanari la preparavano con il latte di castagne, gli altri con il brodo o il latte. Si cucinava mettendo un pentolone sul focolare, che restava acceso tutto il giorno. Mentre la sera le braci si coprivano con la cenere in modo che non si spegnessero del tutto: da qui è nato il modo di dire “coprifuoco”».
Il forno per il pane era in comune
«La carne non era carissima e anche i poveri potevano permettersela. I ricchi mangiavano tanto castrato, agnellone più che vitello, e chi poteva spendere anche polli, anatre e oche. In genere la carne veniva bollita per non sprecare niente e servita con salse a base di spezie come pepe, chiodi di garofano e cannella. Si cucinava molto anche con il forno a legna, che era una struttura pubblica. Si comprava una scorta di farina, poi una volta la settimana la moglie, o nelle famiglie ricche la domestica, impastava il pane e lo portava dal fornaio per farlo cuocere. A volte, già che c’era, portava a cuocere anche una torta salata, simile alla nostra pasqualina o al “pie” inglese ripieno di carne».
Quando si dice casa e bottega
«Le case erano abbastanza strutturate. In genere in città al pianterreno c’era la bottega e al piano di sopra l’abitazione dove la famiglia viveva assieme agli apprendisti. C’era la cucina con il focolare e le stanze da letto. Niente salotto o tinello. Ricchi e poveri mangiavano su una tavola che si appoggiava su dei cavalletti e che si toglieva finito il pasto: ecco perché si dice “mettere a tavola”. Le tovaglie, di solito di lino bianco, si usavano molto. Per chi era di buona famiglia erano una questione di etichetta, che imponeva anche la presenza di una bacinella con l’acqua per lavarsi le mani: la carne si mangiava infatti con le dita, anche se c’erano cucchiai e coltelli. Le sedie con lo schienale erano solo per i ricchi: per tutti gli altri, sgabelli».
In caso di bisogno…
«Di solito per i bisogni fisiologici c’era il vaso da notte, che la mattina si svuotava dalla finestra che si affacciava nei vicoletti tra due case, che infatti non erano una zona di passaggio. Ma iniziano a vedersi pure i primi antenati dei gabinetti: erano simili a balconcini interni, chiusi, dotati di un’asse con il buco».
Ci si lavava con il grasso
«In casa non c’era l’acqua corrente e la si prendeva con i secchi dal pozzo in cortile. Ci si lavava la faccia e le mani con il sapone fatto con il grasso di maiale od olii vari. Contrariamente a una credenza diffusa, tutti amavano fare il bagno. Ma era un lusso: per riempire le tinozze d’acqua calda serviva l’aiuto dei domestici. Nelle grandi città c’erano però dei locali pubblici, le stufe, dove i ricchi o chi era in viaggio andava per fare il bagno».
La moda esisteva già
«La biancheria si cambiava con frequenza. Le mutande si chiamano così per questo: la parola in latino significa proprio “da cambiare”. Chi voleva essere elegante e poteva permetterselo cambiava la camicia ogni giorno. Per gli uomini erano di moda gli abiti corti: giacca abbottonata stretta che arrivava all’inguine e, sotto, le calze o i calzoni. Ogni gamba era a se stante e si allacciava alla cintura o alle mutande: per questo la parola “pantaloni” è plurale. Le donne, sotto l’abito lungo, indossavano mutande e camicia. Per variare, avendo pochi abiti che costavano cari, soprattutto se in broccato, lana o seta, le maniche erano staccabili e venivano legate con lacci e bottoni: da qui il modo di dire “un altro paio di maniche”. Le donne sposate portavano il velo, che poteva essere colorato ed elegante o un semplice foulard, ma nessuna in pubblico mostrava mai i capelli».