Ci racconta il suo momento d’oro: mentre ogni sera conduce "L’eredità", è tornato nei panni di Flavio Anceschi
Nell’armadio conserva ancora il giubbotto autografato che Terence Hill ha regalato agli attori e agli operatori della troupe alla fine delle riprese della prima stagione di “Don Matteo”, nel 1999. Tuttavia, anche se negli anni successivi all’uscita dalla serie del “suo” capitano Anceschi più volte si era vociferato di un possibile ritorno, probabilmente mai Flavio Insinna avrebbe immaginato di indossare nuovamente quella divisa. Invece, come abbiamo visto nella prima puntata di “Don Matteo 13” (e rivedremo nell’ottavo episodio), lo ha fatto e l’emozione di quei momenti vuole condividerla con i lettori di Sorrisi: «È stato un bellissimo incontro. Ne avevamo parlato qualche volta con il produttore Luca Bernabei e lo sceneggiatore Mario Ruggeri quando ci incontravamo per un caffè e quattro chiacchiere, ma non se ne era mai fatto niente. Stavolta, invece, l’abbiamo realizzata con la scusa della festa per i 40 anni di sacerdozio di don Matteo».
Che sensazioni ha provato tornando su quel set da cui mancava dalla fine della quinta stagione?
«Speravo di non fare come Ulisse che torna a casa e viene riconosciuto solo dal cane (ride). Scherzi a parte, quando al primo ciak Nino Frassica e io ci siamo trovati nuovamente di fronte in divisa ci siamo guardati non senza un pizzico di imbarazzo. In quei momenti vedi la vita, gli anni passati, le cose fatte insieme, anche se in realtà noi siamo amici e non ci siamo mai persi di vista. Il tempo, però, passa. Come dice De Niro nel film “Casinò”: “Non andiamo ringiovanendo”. Per un attimo siamo sembrati Totò e Peppino quando chiedono al vigile milanese: “Per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare?” (ride). A un certo punto, però, ho guardato Nino e gli ho detto: “Daje, Ni”. Lui ha arricciato il baffo come fa quando sorride e, allora, ho capito che sarebbe andata bene».
Eravate a Spoleto mentre le sue stagioni erano girate a Gubbio.
«Gubbio o Spoleto non cambia molto. La cifra di “Don Matteo” è l’Umbria. E comunque, quando stavo girando, da Gubbio sono venute a salutarmi tante persone con cui avevo lavorato, i rapporti sono rimasti intatti. In questi anni mi è capitato di passare da là e ogni tanto a “L’eredità” capita una domanda su Gubbio che diventa l’occasione per un saluto. Chi va lì in alcuni bar trova ancora le nostre foto».
Sul set ha ritrovato anche Terence Hill.
«Quando me lo sono trovato davanti con la tonaca ho provato lo stesso imbarazzo di cui parlavo prima, quello di chi si vuole bene e si ritrova dopo tanto tempo. Ma anche con lui è durato poco come, del resto, con tutti gli altri: amici che è stato bello rivedere, come Francesco Scali e Pietro Pulcini (rispettivamente il sagrestano Pippo e il brigadiere Ghisoni, ndr), ma anche Maurizio Lastrico e Maria Chiara Giannetta. Ci siamo subito messi a giocare tutti insieme».
Quando le hanno parlato di “Don Matteo 13” le hanno detto anche che sarebbe stata la stagione dell’uscita di Terence Hill?
«Non subito, l’ho saputo dopo».
E ne ha parlato con lui?
«Sì, e ho capito che aveva ragione quando, con la sua grande sensibilità, mi ha detto: “Flavio, c’è un tempo per tutto”. Quando parla dei suoi film western, Terence dice sempre che il cowboy è quello che arriva, risolve e poi riparte perché il suo tempo là è finito. Da spettatore è ovvio che spero che un giorno possa tornare, ma devo dire che mi piace chi non rimane aggrappato alla poltrona. Gli ho chiesto: “Terence, e adesso cosa farai?” e lui mi ha risposto: “Niente. Il mare, la famiglia”. La vita, insomma».
Al posto di Terence arriverà Raoul Bova.
«È come dire a un calciatore di prendere la maglietta di Totti! Purtroppo le sceneggiature non prevedono interazioni tra noi e dunque non abbiamo girato insieme. Però ho incontrato Raoul sul set e al trucco e mi è sembrato bello dentro e fuori, e già entrato nell’armonia della famiglia di “Don Matteo”. Che poi, dobbiamo dirlo: la sua non è una sostituzione, lo spirito di Terence è sempre là. Pensiamo, piuttosto, a una sorta di “Aggiungi un posto a tavola” in cui lui porta il suo essere Raoul Bova e lo mette al servizio della serie. Senza voler fare paragoni, e con le dovute differenze, è la stessa cosa che è successa a me quando ho iniziato a condurre “L’eredità”: non ho sostituito Fabrizio Frizzi, anche perché non sarebbe stato possibile».
A proposito di “L’eredità”, anche quel programma continua a regalarle grandi ascolti e grandi soddisfazioni.
«La mia medaglia sono le lettere e le mail che arrivano da chi ci ringrazia perché gli facciamo compagnia, mi confortano. Tra la pandemia e, adesso, la guerra non è facile sorridere e ogni volta che salutando dai la linea al Tg1 ti chiedi: “Come aprirà stasera? Che sarà successo?”. Ma devi farlo, devi sorridere, perché sai che in quel modo regali un’oretta di svago a chi sta davanti alla televisione e, magari, ha sentito brutte notizie tutto il giorno. Se non avessi la conferma delle persone, però, non so se riuscirei a farlo».
Vale anche per “Il cantante mascherato” che è appena finito?
«Sì. Un po’ di imbarazzo c’è ma un programma come quello è come il teatro: ti salva. Anche se fai uno spettacolo drammatico, respiri e fai respirare chi ti guarda. Poi, certo, sei consapevole di quello che succede intorno a te e ti adegui. Ogni anno per “Il cantante mascherato” io compro dei costumi da animale che ci fanno ridere e piacciono tanto a Milly Carlucci. L’ho fatto anche quest’anno ma non me la sono sentita di indossarli».
Torniamo a “Don Matteo”: la prima serie risale a più di vent’anni fa eppure è un prodotto ancora estremamente attuale.
«Il merito è degli autori che, come dicono quelli bravi, riescono sempre a unire continuità e novità. Ogni volta ritrovi i personaggi di sempre ma i temi trattati vanno di pari passo con la società in cui viviamo. In questo sta la freschezza della serie. Attraverso la commedia, per esempio, si è esplorato il mondo dei giovani, le loro dinamiche, le problematiche dell’adolescenza, le discoteche, le chat e tutto quello che può succedere. E poi c’è l’eterna lotta tra il bene e il male. Il dolore e i cattivi non mancano ma è il mondo in cui tutti vorremmo vivere perché, alla fine, il male perde. Chi di noi, in un momento di difficoltà o di sconforto, non vorrebbe incontrare sulla sua strada un sacerdote come don Matteo o un carabiniere come il maresciallo Cecchini?».
Quando parla delle problematiche dei giovani pensa anche a Valentina, la figlia che Anceschi, nella prima puntata, ha affidato al maresciallo Cecchini?
«Certo. Lei è una ragazza impaurita che cerca un rapporto umano. Anceschi ama sua figlia ma non riesce a capirla. Un conto è amare una persona, un altro è amarla come questa desidera essere amata».
Che cosa ha rappresentato “Don Matteo” nella carriera di Flavio Insinna?
«Uno spartiacque, per la carriera ma anche per la nascita di molte amicizie. Ancora oggi non posso far altro che ringraziare il regista Enrico Oldoini per avermi chiamato per il ruolo del capitano Anceschi. È stato un regalo. Dopo il diploma al Laboratorio del maestro Gigi Proietti, avevo fatto teatro e qualche piccolo ruolo nei film ma è con “Don Matteo” che è partito tutto».
In questo “tutto” ci sono “L’eredità” che sta ancora conducendo, “Don Matteo” e “Il cantante mascherato” in cui ha da poco finito di lavorare, e “A muso duro”, il film in cui interpreta Antonio Maglio, il promotore delle Paralimpiadi, che andrà in onda prossimamente su Raiuno. Andrà un po’ in vacanza, prima o poi?
«Se per vacanza intendiamo il mare e il sole, col fucile le pinne e gli occhiali, come dice la canzone, sì, qualche giorno lo farò, ma senza fucile perché non ne ho mai posseduto uno. Però, devo dire la verità, io mi sento un miracolato, i veri lavori sono altri. Mi dicono che ringrazio troppo quando mi arrivano le lettere, le sorpresine e i disegni dei bambini, ma io rispondo che ringrazio troppo poco. Io sono ancora nella dimensione del gioco, quando da ragazzino correvo in corridoio con la spada e la maschera di Zorro. Oggi mi sembra di essere ancora quel bambino mascherato».