Giorgio Tirabassi, protagonista di “L’Aquila – Grandi speranze”, si racconta a Sorrisi

Interpreta Gianni Fiumani, il direttore del museo che non si arrende al terremoto, alla rassegnazione e alla burocrazia, ma lotta per la ricostruzione, organizza manifestazioni, combatte la speculazione, infonde coraggio ai concittadini

Giorgio Tirabassi. Il 13 giugno sarà al cinema con il film "Il grande salto" da lui diretto e interpretato
30 Aprile 2019 alle 16:14

Sulla cresta della fiction da vent’anni Giorgio Tirabassi in queste settimane è su Raiuno con la serie "L’Aquila - Grandi speranze". Interpreta Gianni Fiumani, il direttore del museo che non si arrende al terremoto, alla rassegnazione e alla burocrazia, ma lotta per la ricostruzione, organizza manifestazioni, combatte la speculazione, infonde coraggio ai concittadini. Un bell’impegno.

Tirabassi, questo personaggio è solo un idealista o anche realista?
«Beh, certo, lui ha un ideale e cerca di realizzarlo. Come tutte le persone che hanno deciso di risorgere e di coinvolgere altri, ha sempre qualche energia in più».

Lei fra gli ideali e la realtà per cosa propende?
«Io sono abbastanza concreto. E molto disilluso. Sono trent’anni che non voto convinto, voto sempre alla stessa maniera, con la molletta al naso».

Il suo rapporto con L’Aquila?
«La conosco da quando era ragazzino, mio fratello frequentava il Conservatorio della città. Avevo visitato i musei. Prima del terremoto ci andavo ogni stagione per gli spettacoli teatrali».

E dopo il terremoto?
«Ci sono tornato dopo sei anni e ho visto ben poco. Con la serie sono entrato nella realtà della città e ho avuto una sensazione brutta, insolita, irreale. A prescindere da chi ha avuto un lutto, la serie parla anche di chi ha perso la voglia di lottare».

Che idea si è fatto sul set?
«Le persone venivano sul set e ci raccontavano dei loro morti, le loro esperienze, ognuno avrebbe voluto rappresentata la propria storia, ma la nostra è “fiction”. Dopo il film tv su “Borsellino” mi invitavano a tavole rotonde, a conferenze della magistratura, una volta ci sono andato, ma poi ho detto: “Siete fuori strada”. Attenzione a dare un’importanza così a un interprete».

Però per calarsi nel ruolo del giudice Paolo Borsellino aveva studiato parecchio.
«Lessi tutto quello che aveva scritto. E imparai molto. Lì per lì mi sentivo giovane e impreparato. Ma se lui parlava di coraggio e metteva a rischio la vita, io in fondo mettevo a rischio solo la carriera».

Per interpretare Gianni Fiumani chi è stato il suo riferimento?
«Avrebbe potuto essere il sindaco dell’Aquila. Però a volte non è intelligente prendere una persona vera per incarnare un personaggio».

Ha detto: «Molti personaggi hanno qualcosa di me». Li sceglie per questo?
«Come attore faccio riferimento al mio vissuto. In “Borsellino” c’era poco, ma nel caso dell’ispettore Ardenzi di “Distretto di polizia” era facile ritrovarmi: aveva la mia età, una moglie, una figlia, e c’era una tale verità e spontaneità che spesso improvvisavo le battute».

In sei stagioni di “Distretto di polizia” ha fatto carriera e da ispettore è diventato commissario.
«So’ soddisfazioni, avevo lo stipendio più alto».

Questo direttore del museo dell’Aquila potrebbe diventare sovrintendente nelle prossime stagioni?
«Non credo, uno come Gianni Fiumani piuttosto si autotassa, è troppo onesto. Comunque per ora non si parla di altre stagioni».

Quando la definiscono “uno dei volti più popolari e amati della fiction”, come si sente?
«È una cosa che tranquillizza. La sensazione che magari è stata una scelta giusta. Questo è un mestiere difficile, c’è sempre lo spauracchio della povertà, dell’insuccesso»

A suo figlio Filippo, che fa l’attore, lo ha detto?
«Non si può dire ai figli: “È un mestiere difficile, non lo fare”. Ho cercato di farglielo capire. Ma siccome è bravo, non gli ho detto “no”. È dotato, suona il contrabbasso e anche la chitarra». Invece quando voleva fare il calciatore fui più deciso: “Lascia perdere, all’età tua ci sono dei fenomeni”.

La chitarra è un altro suo grande amore. Anche qui, di padre in figlio.
«Sono appassionato, studio tutti i giorni. È l’attività che faccio di più, oltre a stare sul divano. Ho nove chitarre, le vendo, le compro. La soddisfazione è suonare un po’ l’una, un po’ l’altra: un periodo quella classica, un altro quella jazz»

Adesso in che periodo è?
«Suono parecchio blues, è come mettersi le pantofole. Il jazz, invece, è un genere muscolare, ginnico, ti devi allenare molto. Lo so perché il 3 maggio suono al Torino jazz festival e il 4 al Cotton club di Roma».

Finora sullo schermo ha recitato quasi tutto: teppista, poliziotto, professore, chef, persino un lebbroso. Ma mai un musicista…
«Diceva Ettore Petrolini: “Io so fa’ tutto: so piagne, so ride, so magna’, so anda’ a piedi, so anda’ in tram, in bicicletta”. Fa parte dell’attore. Mi piacerebbe interpretare un musicista e partirei avvantaggiato: la chitarra ce l’ho già».

Seguici