Kim Rossi Stuart presenta «Maltese – Il romanzo del commissario»

«Torno in scena perché c'è bisogno di eroi veri» ci ha spiegato l'attore parlandoci della nuova fiction di Rai1 sulla mafia nella Trapani degli Anni 70

Kim Rossi Stuart nei panni di Dario Maltese  Credit: © Assunta Servello e Fabrizio di Giulio
1 Maggio 2017 alle 09:00

Fuori, nel cortile del palazzo della casa di produzione Palomar a Roma, spiccano i colori accesi del pulmino della serie «Braccialetti rossi». Dentro, all’ingresso e lungo le scale, le locandine accuratamente incorniciate di «Il commissario Montalbano» e «Il giovane Montalbano». Presto ci sarà anche quella di «Maltese - Il romanzo del commissario». Quattro puntate in onda su Raiuno da lunedì 8 maggio. Il protagonista è Kim Rossi Stuart, che in questo momento è seduto rilassato davanti a me nella sala delle proiezioni. Il silenzio è assoluto. Si percepisce solo il fruscio del mio registratore che Kim tiene in mano mentre parla. L’ha raccolto da terra: è caduto appena prima di cominciare l’intervista. «Funziona?» dice. Sì, funziona ancora. Possiamo cominciare. Parla in modo pacato, scegliendo con cura le parole.

Kim, è tanto che non fa tv. Perché ha deciso di tornare con Maltese?
«Sono abituato a ponderare i miei lavori con un’attenzione quasi ossessiva. Questa serie invece è stata pianificata con il produttore Carlo Degli Esposti in maniera più istintiva. Ci siamo detti: facciamo qualcosa che possa trasmettere quelli che per noi sono aspetti positivi a un pubblico il più vasto possibile».

L’idea iniziale qual è stata?
«Raccontare un commissario, un eroe vero. Da lì è partito un processo lungo, durato un paio di anni di scrittura».

Chi è Maltese?
«Uno di quei personaggi che occupano la postazione del bene perché qualcuno deve pur occuparla, sebbene sia sempre più complicato. A causa di pigrizia e indifferenza, nella nostra società il male cresce, ma ci sono dei paladini che sentono questa vocazione e che sono in genere figure sole».

Qual è la sua storia?
«Nasce a Trapani, ma a causa di una vicenda personale fugge a Roma. Dopo vent’anni torna nella sua città perché un suo vecchio compagno d’infanzia, oggi commissario, in punto di morte lo investe di una missione che qualcuno deve portare avanti. Solleva il coperchio sulla vicenda di suo padre, una storia che aveva ormai rimosso, e il percorso professionale e quello personale si mescolano e diventano interdipendenti».

Si parla di eventi mafiosi?
«Sì. La storia è ambientata negli Anni 70, quando la mafia è diventata un tema chiaro, a cui si è cominciato a dare un nome preciso. Ma il periodo storico resta sullo sfondo. Abbiamo cercato di non cadere negli stereotipi per rendere Maltese attuale. Avrei potuto indossare camicie con i collettoni e i cravattoni: non l’ho fatto».

Preparandosi a questo ruolo, a quali ricordi legati alla mafia ha attinto?
«Sicuramente gli attentati a Falcone e Borsellino. Il discorso in chiesa della vedova di Vito Schifani, uno degli agenti della scorta di Falcone che disse: “Io vi perdono, però dovete mettervi in ginocchio…”. La prima cosa che ho fatto è stata rinfrescarmi la memoria sugli eroi più o meno recenti della nostra storia. L’ho fatto con rigore e con un grandissimo interesse. E in questa ricerca mi sono imbattuto in Falcone, Borsellino, Peppino Impastato, ma mi sono soffermato soprattutto su Ninni Cassarà (il poliziotto ucciso da Cosa nostra nel 1985, ndr). Lui è stato un mio riferimento per Maltese».

Da quale punto di vista?
«Anche per cose concrete tipo il look, che ho preso da lui. E poi la postura eretta di chi affronta le cose con la schiena dritta. Cassarà era un uomo d’azione».

Anche Maltese è un uomo d’azione.
«Assolutamente sì. Lo vedremo usare le armi, fare delle operazioni sul campo».

Gli ha regalato un bel paio di baffi.
«Per interpretare un siciliano, per quanto di ceppo normanno visti i miei colori chiari, ho sentito il bisogno di dargli delle piccole caratteristiche che mi aiutassero a renderlo più credibile possibile. Dargli un po’ più di Sicilia e un po’ meno di Olanda, visto che io sono mezzo olandese...».

E poi c’è il make-up.
«No, quella è tutta roba mia. Quando ho iniziato a girare la fiction venivo da “Tommaso”, il mio film, due anni massacranti. Tutta quella stanchezza è stata utile per il mio personaggio che a causa delle indagini non dorme quasi mai. Durante le riprese in Sicilia sono dimagrito parecchio».

Come mai?
«Ho sempre preso la mia professione come una missione. Lavoro sei mesi e poi mi fermo due anni, ma in quei sei mesi do tutto me stesso».

Che ricordi ha degli Anni 70?
«Il jukebox. Rino Gaetano che faceva canzoni impegnate travestite da altro. La mia preferita era “Nuntereggae più”. Poi ricordo gli ideali che erano qualcosa di ancora possibile, concreto. Tutto questo mi sembra che sia quasi sparito. Al di là del calcio o cose simili».

È tifoso?
«Sì, della Roma».

Il suo Maltese ha molte cose in comune con Montalbano: la stessa produzione Palomar, Gianluca Maria Tavarelli che è anche il regista di «Il giovane Montalbano», la Sicilia...
«Il colore del mare può essere un reale comune denominatore, ma lo stile e le leve emotive sono altre».

Le piace Montalbano?
«È fatto molto bene. Andrea Camilleri è il fondamento, Luca Zingaretti è perfetto, e la regia di Alberto Sironi riesce ad armonizzare tutto con sapienza e talento».

Cosa guarda in tv?
«Mi piacciono i documentari su natura e astronomia, le partite della mia squadra e alcune trasmissioni di denuncia sociale».

Ora in che cosa è impegnato?
«Con calma sto cominciando a scrivere alcune ipotesi di sceneggiature».

E come nascono le sue sceneggiature?
«Ho sempre inteso il mio lavoro come ricerca in me stesso per crescere. E non ci sono alternative: o si fa così o si va appresso al consenso».

Agli ascolti, intende?
«Ad esempio. C’è una bella differenza tra fare una cosa perché voglio più soldi e più autografi o farla perché sono contento nel vedere che qualcosa di costruttivo viene comunicato a più persone possibili».

È metodico nello scrivere?
«Credo che la scrittura si possa portare avanti solo così. Mi metto al computer nel mio studio e scrivo. Ma gli appunti li prendo ovunque, nei momenti più assurdi, spesso mentre mi sto addormentando. Allora mi devo alzare perché sennò perdo l’idea».

Sembrerebbe un tipo ordinato, ho ragione?
«Nasco come la persona più disordinata e trasandata che conosca. Per reazione sono precipitato nell’opposto».

Lei ha vinto tanti premi.
«Non è vero».

Allora glieli elenco: un David di Donatello, tre Nastri d’argento, due Globi d’oro, tre Ciak d’oro e tre premi Flaiano. Dove li conserva?
«Risponderle con sincerità mi mette in imbarazzo. Sto pensando se farlo. E la verità è che a questa domanda non posso risponderle con sincerità».

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