L'attore torna su Raiuno: è la star di una nuova fiction poliziesca dalle tinte noir ambientata nella Napoli degli Anni 30
Fare le interviste in collegamento video in questi tempi così complicati, che rendono impossibile incontrare realmente i personaggi, ha un aspetto positivo: ti sembra di ospitare le persone nel salotto di casa. E allora capita che tua figlia si affacci sullo schermo per salutare il suo attore preferito e cominci a chiacchierare con lui. Il saluto a Lino Guanciale è stato il regalo che Lucrezia ha più apprezzato in queste Feste. Ripresa in mano l’intervista, la prima cosa che salta all’occhio è l’acconciatura, o meglio, la non acconciatura di Lino.
Lino, che capelli lunghi!
«Sono ancora quelli di Ricciardi (il commissario che interpreta nella fiction in onda da lunedì 25 gennaio su Raiuno ndr). Prometto che presto andrò a farmeli tagliare (ride)».
In effetti Ricciardi ha un lungo ricciolo che gli ricade sulla fronte.
«Sì, è proprio il mio. Il resto dei capelli invece sono tirati indietro dal gel. Anzi dalla brillantina. Sbagliavo sempre il nome anche sul set e il parrucchiere mi rimproverava».
Non è la stessa cosa?
«Macché. Il gel a tenuta forte è niente in confronto alla brillantina degli Anni 30. Era così forte che mi sembrava di avere una cuffia di gomma in testa. Per mandarla via del tutto mi servivano un paio di giorni di lavaggi».
La serie “Il commissario Ricciardi”, di cui è protagonista, è ambientata nella Napoli del 1930. Capelli a parte, come si è trovato a indossare gli abiti di quel periodo?
«Innanzitutto sono vestiti eleganti, che aiutano a entrare subito nel personaggio, nel suo rigore, nel suo portamento, nelle atmosfere. Entravo in camerino la mattina e uscivo facendo un salto indietro nel tempo: è stato bello. Certo, non siamo abituati a tutti quegli strati: camicia, cravatta, gilet, giacca, soprabito. All’epoca ci si vestiva sempre in modo illogicamente pesante. Anche d’estate, con 40 gradi. Con tutti quegli strati addosso e la calotta di brillantina in testa, che impediva la traspirazione, confesso che è stato un po’ complicato!».
Lei nella vita non è “tipo da cravatta”?
«Fino a qualche tempo fa il metodo che adottavo per vestirmi era quello della colla».
Quello della colla?
«Sì. Mettevo la colla addosso, entravo nell’armadio e uscivo con quello che mi restava attaccato... praticamente mi vestivo in ordine casuale (ride). Da un po’ invece cerco di fare più attenzione, ma senz’altro ho uno stile casual. Apprezzo la cravatta, la giacca, gli abiti eleganti, ma non li indosso nella vita di tutti i giorni: normalmente impiego un paio di minuti a vestirmi».
Torniamo al suo commissario. Cosa le piace di lui?
«Il fatto che sia una figura piena di chiaroscuri. Più scuri che chiari. Ricciardi ha, suo malgrado, il dono ereditato dalla madre di raccogliere gli ultimi pensieri delle persone che muoiono di morte violenta. Lui percepisce gli ultimi istanti di vita delle vittime: da un lato questo lo aiuta nelle indagini, dall’altro lo tormenta come uomo».
È un uomo angosciato, solitario.
«A causa del suo fardello, del suo dono di cui non parla con nessuno, si costruisce una maschera di difesa e mette distanza tra sé e il mondo. Ma in fondo è un uomo empatico, proteso verso gli altri e dotato di una sensibilità fuori dal comune. Ha un vissuto interiore pieno di emozioni e i suoi occhi, vivissimi, sono velati di nostalgia di ciò che lui vorrebbe avere, ma che non può concedersi per il rischio di far ricadere sulle persone che ama di più il peso della sua sorte. Ma puntata dopo puntata, c’è una progressiva apertura al mondo, che fa leva sull’amore. Perché è attraverso l’amore che passa la felicità».
Quel ricciolo sulla fronte sembra essere l’unica cosa “ribelle” del commissario.
«È vero, lo caratterizza. E la cosa più complessa durante le riprese è stata “la continuità del ciuffo”».
La continuità del ciuffo?
«Sì. Nel raccordo da una scena all’altra, il ciuffo doveva essere nella stessa posizione. Mica facile, essendo “ribelle” (ride). Allora sul set avevo il cruccio del ciuffo...».
Conosceva i romanzi di Maurizio de Giovanni, da cui è stata tratta la serie?
«Prima che mi venisse proposto il ruolo avevo letto i primi due. Poi quando ho saputo che avrei avuto l’onore e l’onere di interpretarlo, ho letto tutti gli altri per familiarizzare col suo mondo, con questo personaggio letterario già amatissimo, frutto di un’intuizione tra le più felici della nostra letteratura contemporanea».
Ricciardi non sorride mai.
«Se lo concede solo in momenti rari e privatissimi, con le persone che ha vicino. Lui dà valore al sorriso e lo centellina. Per questo ho goduto della tenebrosità di Ricciardi, perché in quei rari momenti di apertura regala un calore speciale».
A lei cosa la fa sorridere?
«Un sacco di cose e mi rendo conto che sorrido spesso. Nei momenti di tenerezza, o davanti ai bambini che giocano, che cadono, davanti allo spettacolo della solidarietà umana, che in questo periodo ho visto di frequente. E il sorriso si tramuta in risata quando incontro gli amici, qualcuno a cui voglio bene».
Lei nella vita è più sorridente di quanto non siano in genere i personaggi che interpreta: le piacerebbe fare un ruolo comico?
«Magari!».
Nel 2020 è andato “controcorrente”: l’anno appena terminato le ha portato anche cose belle come il suo matrimonio. Come va la vita matrimoniale?
«Bene, io e Antonella siamo molto felici».
Sono le sue prime Feste da uomo sposato... Ha fatto l’albero e il presepe?
«Sì, l’albero, il presepe, le calze della Befana e tutti gli addobbi del caso (ride)».
Il regalo più bello che ha ricevuto?
«Quello di Antonella: un bellissimo oggetto di design vintage. Abbiamo questa passione in comune».
Qual è un aspetto sorprendente di sé, che ha scoperto nell’anno appena trascorso?
«Di essere in grado di fare lavoretti a casa, mentre prima chiamavo subito il tecnico per qualunque cosa. E poi che mi piace molto fare regali. Prima lo davo per scontato, invece in questo periodo un regalo è un ponte che ti unisce alle persone, che magari sono lontane fisicamente».
E ora sta girando la serie “Sopravvissuti”.
«Sono nel pieno delle riprese, che mi impegneranno tra Roma e Genova fino alla primavera. È un thriller, che ruota attorno alla storia di un naufragio: i protagonisti sono dispersi, creduti morti per un anno e poi tornano a casa, ma con molte cose da nascondere. D’altra parte anche chi è rimasto a casa avrà molto da nascondere... L’anno di assenza crea uno strappo nelle vite di chi è rimasto, ma anche in quelle di chi ha vissuto il naufragio. E quando questi due mondi si ritrovano, è difficile far ricombaciare i pezzi. Il cast è internazionale (tra gli altri attori italiani ci sono Barbora Bobulova, Alessio Vassallo e Fausto Sciarappa) e la regia è di Carmine Elia. La moglie del mio personaggio è Stéfi Celma (è un’attrice francese della serie “Chiami il mio agente!”, ndr)».
Il regista è lo stesso di “La porta rossa”. A quando la terza serie?
«In questo momento stiamo cercando di trovare la collocazione giusta».
E “L’allieva 4”?
«Continuo sulla mia posizione: sono felice di aver girato anche la terza stagione e del percorso del mio personaggio Claudio Conforti. Credo però che sia sempre bene chiudere una storia quando l’interesse degli spettatori è forte, prima che ci si stanchi. E penso che in questo caso vada bene così».
C’è un personaggio che sogna di interpretare?
«Il Principe di Homburg: è una figura che mi piacerebbe interpretare prima di passare l’età giusta per farlo».
A 41 anni è ancora giovane...
«Per ora la do a bere. Ma non esageriamo, se aspettiamo troppo rischio di non essere credibile.... Un altro desiderio è interpretare Cattivik: in quel caso basta mettersi la maschera da punto di inchiostro e qualunque età andrebbe bene».
I suoi buoni propositi per il 2021?
«Non perdere il valore della lentezza, che ho scoperto in quest’anno di lockdown. Cercherò di non tornare a un ritmo di vita troppo frenetico e vorticoso, perché in questi mesi ho fatto esperienza di un ritmo vitale più umano, che consente di godersi appieno cose che prima correndo rischiavo di perdere».
Il buon proposito del 2021, che era anche quello del 2020 e che resterà l’eterno buon proposito?
«Andare in Patagonia. Finalmente. Prima o poi ci andrò: diciamo che è il proposito per il decennio degli anni duemilaventi!».