L'attore torna nel panni del commissario Montalbano e, in occasione dei 20 anni della serie, rivela nella nostra intervista...

Sono trascorsi la bellezza di 20 anni dalla messa in onda del primo film di “Il commissario Montalbano”. «E sono volati» commenta sorridendo Luca Zingaretti, che l’11 e il 18 febbraio rivedremo nei panni del commissario più amato della tv con i due film inediti “L’altro capo del filo” e “Un diario del ‘43”.
Sono tanti... è un traguardo straordinario per una serie tv.
«Già. Se penso che sono 20 anni mi prende un colpo. Eppure io continuo a fare questa serie con una voglia e una freschezza tali che è come se avessi cominciato ieri».
Se si guarda indietro quali sono i momenti di questi 20 anni che meritano di essere ricordati più di altri?
«I primi due anni sono stati un’emozione continua. Quando abbiamo cominciato, i romanzi già scritti da Andrea Camilleri erano quattro e mi ricordo che è stato come rompere un diaframma tra quello che era stato il mio studio e il personaggio, il dovergli dare vita. Quel periodo è stato come i primi anni di un amore con una persona: c’è una passione straordinaria, c’è la voglia divorante di conoscere l’altro. Ma gli anni successivi non sono stati certo da meno».
Ormai lei e Salvo Montalbano siete come due “vecchi amici”. Il vostro rapporto si è evoluto nel corso del tempo?
«Per me ogni volta è come andare a trovare un amico che abita in un paesino della Sicilia. E quando sono lì ci raccontiamo come stiamo».
Il primo ciak se lo ricorda?
«Il primissimo non me lo ricordo. Ma ricordo i primi giorni: alla fine della prima settimana ero molto preoccupato, mi sentivo bloccato».
Cosa intende?
«Come la sera prima di un esame: hai studiato tanto ma ti sembra di non sapere niente. Poi arrivi all’esame, ti metti seduto davanti al professore, lui ti fa la prima domanda e tu ti sblocchi. Ecco, la prima settimana di riprese è stata un po’ come la prima domanda a un esame».
E ha preso un bel 30 e lode. Anzi, sono 20 anni che prende 30 e lode.
«Sì, questi 20 anni sono stati costellati di 30 e lode. E di soddisfazioni continue. I risultati di audience altissimi, la conquista di mercati esteri che tradizionalmente sono chiusi ai prodotti italiani. In tanti Paesi abbiamo fatto da apripista, mentre in altri siamo ancora l’unico prodotto italiano che è riuscito a entrare».
C’è stato un momento di difficoltà invece in tutto questo tempo?
«Sì, intorno al 2008 quando dissi che volevo lasciare il personaggio. È stato quello l’unico momento in cui si è creata una sorta di stanchezza rispetto a ciò che stavamo facendo».
E cosa è successo?
«Ci siamo fermati per tre, quattro anni e poi, quasi per caso, ci siamo ritrovati insieme col desiderio di ripartire. Perché questa serie è un po’ come l’Africa: se non la fai, dopo un po’ ti viene il “mal d’Africa”».
Quali sintomi comporta il “mal di Montalbano”?
«Ti manca tutto: le persone che ci lavorano, il personaggio, la “materia camilleriana”, i luoghi che ci ospitano che sono unici e di una dolcezza indescrivibile».
Una nostalgia irresistibile, insomma, che l’ha portata a tornare a interpretare Salvo dopo pochi anni?
«Già. È stata proprio la voglia di andarmi a misurare ancora con il personaggio Montalbano. Mi mancava. Seguire un personaggio importante, ricco, pieno di cose da raccontare come Montalbano per 20 anni è un privilegio che tocca a pochi. Con un autore vivente, come Camilleri, che continua a modificare il personaggio».
Come è cambiato Salvo? Il commissario di “Il ladro di merendine”, la prima puntata che andò in onda, è così diverso da quello di oggi?
«In realtà non è tanto il personaggio a essere diverso, è il nostro Paese che è cambiato. Il giallo è il tipo di scrittura che racconta al meglio un territorio, una nazione, una città, un’atmosfera. Tutti i grandi giallisti hanno raccontato il proprio mondo, il proprio presente in maniera straordinaria, quasi fossero dei saggisti. In questo senso non è tanto il personaggio creato da Andrea Camilleri che è cambiato quanto l’ambiente in cui agisce che è completamente diverso. In questi venti anni, che non sono pochi, noi italiani siamo cambiati tantissimo».
Cosa ci può anticipare dei due nuovi episodi che stiamo per vedere?
«Il primo, “L’altro capo del filo”, è un intreccio di amore e morte, un tema caro a Camilleri. Il secondo, “Un diario del ‘43”, è la storia di un anziano signore americano, nato a Vigata, che a un certo punto della sua vita torna nella sua terra per riscoprirne la dolcezza. Ma non solo: torna anche, e lo capiremo poco a poco, per vendicarsi di un torto subito in gioventù».
Negli ultimi episodi avevamo visto Montalbano in procinto di sposarsi. Ma era solo un sogno... Il rapporto di Salvo con Livia si evolve nei prossimi due episodi?
«Livia è come se fosse la coscienza di Salvo, l’unica persona da cui riceve delle critiche e da cui le accetta... anzi ha bisogno di essere criticato da lei. Questo aspetto fondamentale del rapporto tra i due personaggi è presente anche in questi due episodi. Il loro è un legame straordinariamente forte, che va oltre l’affetto e i sentimenti».
Ce l’ha un rito per la messa in onda di ogni nuova serie?
«Le puntate le seguo sempre con la mia famiglia, con Luisa (Ranieri, ndr) e le bambine. Nessun altro. Le guardiamo per il piacere di guardarle, ci facciamo due risate, stiamo insieme e poi ce ne andiamo a dormire. Non faccio niente di speciale».
E ogni volta che tornate sul set sarà quasi come tornare in famiglia…
«Non “quasi”, la nostra è proprio una vera famiglia».
E all’inizio delle riprese di una nuova serie c’è un rituale?
«C’è il brindisi dopo il primo ciak: si brinda con bollicine, cannoli e tanti altri prodotti italiani».
Tra i 34 film che avete girato ce n’è uno che le è piaciuto più degli altri?
«Direi di no. Però sono molto affezionato a “Il cane di terracotta”, perché c’è una grande storia d’amore e si rifà a degli archetipi antichissimi».
Prima di indossare di nuovo le giacche su misura di Salvo, le serve un periodo per prepararsi, o le viene naturale rientrare in quei panni?
«Altro che naturale! Ogni volta c’è un grande lavoro di preparazione, fin dalle sceneggiature, dove metto voce, riscrivendo io stesso alcune parti. Credo che oltre a Camilleri nessun altro conosca il personaggio come lo conosco io, e a me serve tutto questo lavorio per rientrare in quella atmosfera, in quell’universo, nella memoria. Penso che il 90% del grande successo, oltre naturalmente alla penna di Camilleri, risieda nella testardaggine di questo gruppo che non si è mai accontentato, non ha mai dormito sugli allori e si è sempre rimesso in gioco ogni volta come fosse la prima volta. Un po’ per entusiasmo e un po’ perché siamo tutti dei grandi professionisti».
Le scappa mai ogni tanto nella vita di tutti i giorni di infilare qualche espressione tipica di Montalbano?
«No, sinceramente no».
Quando le persone la fermano per la strada cosa le chiedono di Montalbano?
«Stranamente più Montalbano ha successo, più mi riconoscono come Luca Zingaretti. E non mi fanno tante domande, piuttosto si raccontano, come se fossi uno di famiglia. Mi fa piacere perché oltre a sentirne l’affetto e la stima, capisco che si fidano di me tanto da aprirmi il loro cuore».
E oltre a Montalbano cosa l’aspetta?
«Sto per girare una commedia per il cinema di un autore esordiente, poi riparto per le riprese dei prossimi due o tre episodi di Montalbano, sto già lavorando alle sceneggiature. E da ottobre in poi ci sono altri progetti ma è ancora presto per parlarne».
Un successo che ha girato il mondo
Era il 6 maggio del 1999 quando andarono in onda i primi due episodi di “Il commissario Montalbano”. Da allora ne sono stati girati 34, tratti da 24 romanzi e 20 racconti di Andrea Camilleri. In 20 anni la serie è stata seguita da quasi un miliardo e 200 mila spettatori in Italia. Senza considerare i 60 Paesi nei quali è stata venduta. «Un caso clamoroso di internazionalità: Montalbano vince a qualunque latitudine e longitudine» dice Eleonora Andreatta, direttore di Rai Fiction. «Vince perché con il suo senso di giustizia e la sua pietà umana si immerge fino in fondo nel dolore e rimette ordine nelle cose senza fare compromessi, senza accettare comode verità, senza nascondersi. E ha un’etica fatta di distacco e partecipazione, di ironia e “pietas” che lo rendono prezioso per il pubblico. È siciliano, ma in questo localismo fatto di gesti, parole, gusti, ha una dote di umanità che lo rende universale. Ed è questo il gioco vincente della fiction: esaltare, attraverso un patrimonio fortemente identitario e connotato sul piano storico, culturale e ambientale, un sentimento narrativo universale, capace di portare il nostro prodotto in tutto il mondo».