“Nero a metà”, Angela Finocchiaro: «Proprio un bel tipo, la mia Di Castro»

Da tre stagioni è il bizzarro medico legale della serie "Nero a metà" su Rai1

2 Maggio 2022 alle 08:29

Signora Finocchiaro, avrebbe mai pensato di finire a “maneggiare cadaveri”?
«Mai, però devo dire che la chiave delle sceneggiatrici (ci sono tante donne a scrivere la serie) è stata quasi poetica, perché in pratica quello che muove la mia Giovanna Di Castro è rubare l’ultimo segreto e restituire la verità a chi è morto. C’è un rapporto intimo, come se il cadavere avesse un mistero prezioso da rivelarmi, una sorta di reciprocità: “Dimmelo, ti prego, in modo che restituisca la dignità alla tua morte disperata”».

Angela Finocchiaro racconta così Giovanna Di Castro, il medico legale che interpreta da tre stagioni nella serie “Nero a metà”, dove affianca una squadra di poliziotti romani comandati da Claudio Amendola. Camice verde, cuffietta, occhi perspicaci, sempre e solo rivolta all’essenziale, che nel suo caso è capire come qualcuno è stato ammazzato. Senza giri di parole, anzi con un’ironia mista a un’autorità che non ammette repliche.

Com’è stato fare la prima autopsia sul set?
«All’inizio avevamo un’anatomopatologa vera sul set e io ero sempre lì con gli occhioni sbarrati: “Ma dai! Veramente?”. Sono gesti impegnativi, richiedono una certa forza fisica, una certa decisione, bisogna aprire, ribaltare, tirar fuori. Nelle fiction non esistono cose così. Nella nostra non si vedono mai dei tagli, non facciamo squartamenti, ci sono solo cuciture, ecchimosi e c’è un lavoro straordinario del reparto effetto trucco».

Quando gliel’hanno proposto cosa hanno detto?
«Mi hanno descritto questa anatomopatologa che aveva un rapporto spinoso con la vita, un po’ da istrice, però di fatto, come ho verificato personalmente, gli anatomopatologi sono persone molto concrete e se pur hanno un’ironia, questa non toglie importanza e profondità a quello che fanno».

E sì che lei all’università si era iscritta a Medicina.
«Lo feci per perdere del tempo. Era un periodo, tra la metà e la fine degli Anni 70, dove per me l’università e la recitazione andavano insieme. L’università era l’educazione tradizionale, ma quello che cercavo era altro».

Mai immaginato che tipo di medico sarebbe stata?
«All’inizio pensavo a chirurgia, ma “pensavo” è come dire: “Le frittelle che volano”. Poi tra il primo e il secondo anno sono passata da Medicina a Psicologia e lì le frittelle volavano sempre di più. In realtà ho cominciato quasi subito a lavorare al Teatro del Sole con degli spettacoli nelle scuole. C’era qualcosa che mi chiamava con forza».

Alla fine è diventata medico (legale) per fiction, professione di grande successo in tv.
«A volte questi medici legali sono un po’ bizzarri, ma non li ho mai visti in maniera cupa, sono persone che hanno quel lampo, quella genialità, quell’intuizione che può risolvere un caso».

Segue le serie crime tipo “CSI”?
«Non particolarmente. Ora sto guardando una serie finlandese, “Bordertown”, dove c’è un medico legale con cui il detective stringe un rapporto di amicizia, lo chiama la notte e gli chiede cose impossibili. Sono figure curiose che possono avere una loro bizzarria».

Bizzarra pure la sua Di Castro: ha un carattere respingente ma è infallibile.
«In certi lavori questa concretezza, l’andare al sodo, può portare a una spigolosità. C’è alla base un senso di riscatto, qualcosa da restituire. Tante ore di solitudine e analisi possono darti questo tipo di carattere».

E ha la battuta sempre pronta, un po’ come lei.
«Molto più di me! Grazie a bravi sceneggiatori».

Tutto scritto o a volte improvvisa?
«Diciamo che le battute sono tendenzialmente scritte, se poi c’è una variazione ci si mette d’accordo, ma sono già pensate bene».

In una puntata dice: «Tutte le volte che estraggo un proiettile mi viene in mente “L’allegro chirurgo” (il gioco da tavolo, ndr)».
«Quella non è mia».

Della vita privata di questo personaggio si sa poco.
«Ha un fidanzato misterioso, un uomo sposato, lo chiama genericamente “coso”. Non dice niente della sua vita privata, non lascia molto spazio, anche io, ammetto, non ne so di più».

Su questo vi assomigliate: si sa solo che lei è sposata con un signor Danilo e avete due figli.
«In realtà si chiama Daniele, sbagliano tutti. È che parlare di me lo trovo noiosissimo, ci sono quelli che hanno delle vite stupende da raccontare. Quando devo fare un’intervista mi dico: “Ora che racconto?!”. È come quando uno si auto-annoia da solo».

A proposito di cadaveri, da attrice comica le è capitato spesso di fare battute sulla morte?
«Non particolarmente. È un nodo su cui mi avviluppo spesso e crescendo è anche una cosa con cui si ha a che fare sempre di più. Io, per esempio, adoro Woody Allen che su questo tema dice cose strepitose. Anche Walter Fontana, l’autore con cui lavoro a teatro, usa un tratto ironico su questi fatti ostici da digerire. Adoro chi riesce a fare risate della propria disperazione. Anche se crescendo si fa più fatica e quel sorrisino a volte si spegne. Così con gli amici viene da dire: “Però anche basta parlare di analisi del sangue, diamoci una calmata!”».

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