Sabrina Ferilli in “L’amore strappato”: «Vi racconto una storia incredibile ma vera»

«Interpreto una donna a cui portano via la figlia per un errore giudiziario» dice l’attrice. «Una madre-coraggio in cui ho messo tutta me stessa» in onda dal 31 marzo su Canale 5

Sabrina Ferilli. L’attrice sta preparando un suo progetto teatrale su un personaggio femminile del ‘900  Credit: © Iwan
28 Marzo 2019 alle 14:08

Entra nella stanza, si toglie gli occhiali scuri, spegne la luce e spalanca le tende per far entrare il sole: «Ecco, così è meglio, no?». È meglio sì. Anche perché dalla finestra si vede Castel Sant’Angelo. E non è una cosa da poco. L’appuntamento con Sabrina Ferilli è nel suo ufficio che si trova proprio nel cuore di Roma.

D’altronde Roma è nel cuore dell’attrice: «Che meraviglia, eh? È davvero la città più bella del mondo». Si mette seduta, si assicura che io abbia preso un caffè e comincia a parlare in modo pacato, dosando bene le parole, che sottolinea con gesti precisi. La incontriamo per “L’amore strappato”, la fiction in tre puntate, diretta da Simona Izzo e Ricky Tognazzi, in onda dal 31 marzo su Canale 5 e liberamente ispirata a una storia vera.

È il racconto di un incredibile errore giudiziario a causa del quale una bambina di sei anni viene strappata alla sua famiglia. La mamma, interpretata appunto da Sabrina Ferilli, lotta con coraggio e determinazione per dimostrare l’innocenza del marito (Enzo Decaro), ingiustamente accusato di molestie, e riavere così la sua bambina. Ma quando il calvario giudiziario dell’uomo si conclude con un’assoluzione piena, la bambina, ormai cresciuta, dopo anni trascorsi in istituto è stata data in adozione e non può tornare dalla sua famiglia.

Sabrina, come è nato il suo coinvolgimento in questa serie?
«Conoscevo la storia e avevo letto “Rapita dalla giustizia”, il libro che la racconta. Quando c’è stata l’occasione di farne una fiction ho accettato».

Come mai?
«Da sempre le storie che hanno un interesse sociale, civile, che possano far riflettere, sono le storie che mi interessano di più».

Una vicenda assurda…
«Fortunatamente sono casi estremi, che però possono succedere. È per questo che vanno raccontati. Penso che il medico e il giudice siano le due figure che possono annientare, con un errore, un essere umano. Questa è una storia che è partita dalle dichiarazioni di una bimba di sei anni: quanto possono essere attendibili i piccoli? E quanto possono essere condizionati? D’altronde però i bambini sono i più indifesi ed è giusto che vadano ascoltati e che le “antenne” siano sempre all’erta. Come si può fare? Ecco perché parlo di un atroce, incredibile evento, insieme con un giudizio che ha rovinato questa famiglia. E a proposito di rovinare la vita delle persone c’è una cosa sulla quale vorrei richiamare l’attenzione».

Ci dica…
«I processi sommari fatti in tv da persone incompetenti o che non conoscono gli atti giudiziari dei casi di cui si parla. Il giudizio affidiamolo a chi è preparato, aspettando sempre i tre gradi del processo. Non è in televisione che si può decidere se uno è colpevole o innocente. Con la vita delle persone non si scherza mai. Tornando alla famiglia raccontata nella fiction, una cosa molto pesante che hanno subito, oltre a tutto il resto, è stata la gogna della collettività, degli amici e dei colleghi. Per anni si è pensato che fossero dei mostri, ma mostri non erano. Ecco perché mi dico: “Speriamo che questa serie serva a combattere i pregiudizi e i legacci mentali della gente”».

Qual è stato l’aspetto più difficile nell’interpretazione di Rosa?
«Ho fatto attenzione a non dare l’immagine di una donna che fosse contro la giustizia o che avesse da rivendicare un torto verso un giudice o un magistrato. Perché mi piace pensare che anche un errore mostruoso come questo possa essere fatto in buona fede per la tutela di un minore».

L’argomento giustizia sembra le stia molto a cuore.
«C’era un giudice che conoscevo quando ero ragazzina, mio papà ci lavorava insieme. Ero affascinata dall’idea delle sentenze. Una cosa che mi ha sempre colpito era il fatto che il giudice stabilisse le pene. Una volta gli chiesi: “Ma lei quando deve emettere una sentenza di ergastolo come fa? Riesce a dormire la notte? Io non ci riuscirei, troppa responsabilità”. Lui rispose: “Quelli sono i momenti più brutti della mia vita. Mi chiudo in me stesso per tre giorni. Parlo solo con mia madre, che è una donna saggia, e le racconto per filo e per segno la vicenda. Sento quello che mi dice e poi rifletto. Alla fine dei tre giorni sono pronto per la sentenza”».

Le sarebbe piaciuto diventare un giudice?
«Sì. Ma forse più che il giudice avrei preferito fare il pubblico ministero. Mi piace fare le filippiche, entrare nel merito e prendere posizione su ciò che è giusto e ciò che non lo è. Chissà, magari mi sarebbe venuto meglio che fare l’attrice! (ride)».

Nella sua carriera ha interpretato tanti personaggi diversi, ce n’è uno nuovo con cui le piacerebbe cimentarsi?
«Personaggi femminili belli ce ne sono ancora tanti da fare. Anita Garibaldi (la rivoluzionaria moglie di Giuseppe Garibaldi, ndr), per esempio, è un personaggio che amerei interpretare. I ruoli femminili che mi piacciono sono quelli forti, anche perché li sento più vicini a me».

In questo momento sta lavorando a qualche film o serie tv?
«Io faccio sempre una cosa alla volta e mi ci dedico con tutta me stessa. “L’amore strappato” abbiamo cominciato a girarlo a settembre ma ci lavoravamo già da un anno e mezzo. Diciamo che per un film di tre puntate mi ci vogliono in media due anni (ride). Poi però vedo il risultato e sono in pace con me stessa. Un qualunque mio film può avere avuto più o meno successo, ma nessuno può dire: “Che brutta cosa ha fatto Sabrina”. E per me è ancora questo quello che conta».

Lei è anche molto legata al teatro.
«Sì, e ho a cuore un progetto teatrale. Sto comprando i diritti di un testo di una donna straordinaria del ’900, per me uno dei romanzi più importanti scritti in Italia da una donna. Ma non posso ancora dire nulla. Poi, prima che lo preparo, lo metto in piedi e lo faccio ci vorranno… un paio d’anni. Appunto! (ride). Sa cosa diceva mio nonno?».

No, cosa diceva?
«Che i lavori fatti bene “nun so’ mai fiaschi che s’abbottano”. In altre parole, per fare un lavoro fatto bene non basta soffiare nei fiaschi per farli gonfiare. Ci vuole attenzione, meticolosità e dedizione. E io questa regola l’ho sempre seguita».

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