Stefano Fresi e Claudio Bisio: «Portiamo in tv le fatiche di genitori e adolescenti»

Dal 15 maggio arriva su Rai1 la nuova serie "Vivere non è un gioco da ragazzi"

Stefano Fresi e Claudio Bisio, qui con Nicole Grimaudo e Riccardo De Rinaldis
12 Maggio 2023 alle 09:21

Stefano Fresi: «Bisogna parlare con i figli»

Stefano Fresi in “Vivere non è un gioco da ragazzi” è Marco, padre di Lele, un adolescente come tanti di un liceo bolognese. In una famiglia come tante.
«E poi in questa famiglia entra il dramma, la droga. Lele, un figlio insospettabile, per conquistare una ragazza che ne fa uso compra la droga sottocosto e la vende a un altro ragazzo che muore».

Che tipo di padre è Marco?
«Un uomo tutto d’un pezzo, lavoratore, dedito alla famiglia, ha una storia d’amore con Anna. Quando la tragedia sconquassa tutto, dice al figlio: “Ti porto in cantiere” senza parlargli o mettersi in ascolto».

Si parla delle droghe sintetiche, le “paste”, molto in uso tra i giovani.
«Ne hanno parlato serie come “Breaking bad” o al cinema “Smetto quando voglio”: è un tema doloroso, la droga porta sempre malefici, ne traggono profitto solo gli spacciatori».

Il regista, Rolando Ravello, dice che è un tema molto scomodo.
«È un atto di coraggio parlarne su Raiuno: si tende a dire che di problemi ce ne sono già abbastanza, meglio una tv di intrattenimento, leggera. Invece ben venga una tv che sia anche denuncia e faccia luce su certi temi».

Nella serie lei, romanissimo, parla con accento bolognese.
«Mi è stato chiesto di interpretare un montanaro di Monteacuto. A Bologna andavo a giocare a carte all’osteria e chiedevo: “Come si dice questo? Quello come si chiama?”».

Da ragazzo qual era la paura più grande?
«Sono cresciuto a Centocelle, un quartiere di Roma che negli Anni 80 era una delle piazze di spaccio della banda della Magliana: a volte fuori da scuola c’era un drogato in overdose, chiamavamo l’ambulanza. Sono realtà e paure che ho ben presenti».

Ripensando a quel periodo, di cosa sente più nostaglia?
«Della spensieratezza. L’idea di avere un punto di riferimento, i genitori, che ora vedo invecchiare e ammalarsi: comincio a sentire la “sostituzione”. Prima eri figlio e dei problemi se ne occupava papà».

Nella vita lei ha un figlio, Lorenzo, con la musicista Cristiana Polegri.
«Lorenzo dice che sono un papà buonissimo. In realtà non sono sempre accomodante, sono abbastanza severo ma lo ascolto».

Ha paura per il suo futuro?
«A 12 anni mio figlio ha già visto una pandemia e una guerra. La mia generazione ha avuto Chernobyl come spauracchio, ma manteneva ancora il sogno di un futuro, solo dopo ci siamo accorti del precariato. I giovani oggi non hanno neanche questo sogno, ti laurei a pieni voti ma il lavoro non c’è».

Lei non è in molte serie tv a parte “I delitti del BarLume”.
«Anche lì interpreto un padre un po’ ansioso. Sono in quella fase della carriera in cui sul set l’attrice di 22 anni mi dice: “Ciao, piacere di conoscerti, ho il ruolo di tua figlia”. Gli attori giovani mi chiamano “zio Fresi”».

“Vivere non è un gioco da ragazzi” dice il titolo. E recitare?
«Recitare è un gioco meraviglioso, bisogna restare bambini dentro, mantenere l’innocenza, senza i compartimenti stagni che vengono quando cresci, per far credere alle persone che sei Amleto o Giovanna d’Arco o un albero».

Claudio Bisio: «Conosco le paure di un padre»

Claudio Bisio nella serie è Saguatti, un poliziotto piuttosto ambiguo.
«La mia è una partecipazione, Saguatti è un personaggio abbastanza cattivo. Capisce subito quello che è successo e scatta una guerra fra lui e il ragazzo, Lele, come il gatto con il topo. Solo che Saguatti ha la divisa, il potere, è adulto, ha più cultura. Raramente ho fatto personaggi così negativi».

Che cosa l’ha convinta a cambiare registro?
«L’idea che alla mia veneranda età come attore ho fatto tante commedie e potevo uscire dalla “comfort zone” insieme con amici come il regista Rolando Ravello e lo sceneggiatore Fabio Bonifacci al cui libro (“Il giro della verità”) è ispirata la serie. Un po’ per fiducia e un po’ per sfida».

Non c’è niente da ridere, quindi?
«Il mio personaggio all’inizio era solo un cameo, poi si sono aggiunte altre scene a fianco dell’attendente Paternò interpretato da Antonio Perna, un attore comico napoletano con cui abbiamo improvvisato alcuni dialoghi. Un tontolone del Sud e un rigido del Nord, una specie di coppia comica».

Il suo è un ruolo di cerniera tra adulti e ragazzi. I due mondi sono così distanti?
«Abbastanza, non vuol dire che non si possano trovare punti di contatto e di discussione. I miei figli hanno ormai 25 e 27 anni, studiano uno a Berlino e uno a Londra (dicono che studiano, poi chissà cosa stanno facendo...). Certe cose le ho vissute in casa e ne siamo usciti più che bene».

Da padre quali erano le sue paure?
«Non tanto le droghe, c’era la paura per l’incolumità dei figli. Uno dei due usciva in bicicletta, era sempre una lotta fargli mettere il casco, tutti i venerdì tenevo il telefonino acceso passando notti insonni. Una volta mi chiamò alle 2 perché aveva legato la bici a un palo e non trovava le chiavi del lucchetto. Lì ho perso dieci anni di vita».

Lei, invece, da ragazzo come passava il sabato sera?
«Io ho fatto il liceo a Milano tra il 1972 e il 1977, il sabato con i compagni di scuola preparavamo i cartelli per la manifestazione del lunedì mattina. Erano anni particolari. Una volta mia mamma dalla preoccupazione finì in ospedale con una colica renale».

Che cosa resta di quella fase?
«Tutto, fu al liceo che decisi di fare l’attore, conobbi Dario Fo durante un’occupazione. Restano i compagni di classe, ancora ci vediamo e ci frequentiamo, ogni tanto andiamo a trovare il professore d’italiano che è in una casa di riposo sul lago di Como. Sono stati anni formativi e impegnati».

“Vivere non è un gioco da ragazzi”: concorda con il titolo?
«Se con questo si intende una cosa facile, vivere non lo è. Nel senso di vivere bene, non sopravvivere. Una vita che valga la pena di essere vissuta, con un perché. C’è chi lo trova nella fede, chi in qualche ideale, l’importante è non perdersi. Oggi i ragazzi sono convinti di avere in mano il mondo e poi a volte si perdono».

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