Liberi sognatori, il figlio del giornalista Mario Francese lo ricorda per Sorrisi

La serie di Canale 5 racconta il delitto di Mario Francese, ucciso dalla mafia «L'eroe di questa fiction io lo chiamavo papà»

Claudio Gioè nei panni di Mario Francese e Claudia Gusmano in quelli di Antonietta Bagarella in «Liberi sognatori»
19 Gennaio 2018 alle 09:00

La sede siciliana dell’Ordine dei giornalisti, a Palermo, è diversa da tutte le altre. È una villa sequestrata alla mafia. Sorge di fronte alla villetta dove Totò Riina trascorse gli ultimi anni di latitanza. È qui che incontriamo Giulio Francese, da pochi mesi alla guida dei giornalisti siciliani. Giulio è il figlio di Mario, il cronista scomodo che il «Capo dei capi» fece ammazzare da Leoluca Bagarella il 26 gennaio del 1979, e il fratello di Giuseppe, morto suicida dopo aver dedicato la propria esistenza a fare riaprire il caso, fino a ottenere la condanna di mandanti ed esecutori. Due storie tragiche diventate un episodio della fiction di Canale 5 «Liberi sognatori».

Giulio, hai già visto la puntata?
«La vedrò in tv e sono curioso di scoprire le reazioni. Portare sullo schermo la storia di mio padre era un’idea che cullavamo da tempo. Perché è tragica, ma anche bella da raccontare dal punto di vista umano e professionale. In più c’è anche la vicenda di mio fratello Giuseppe, che ha cercato per una vita giustizia per nostro padre e con la sua stessa morte ha finito per darle ulteriore rilievo. Questo percorso per arrivare alla verità per noi è stato un cammino di sofferenza. Per combattere quel silenzio mortificante e assurdo che aveva avvolto nostro padre abbiamo pagato un prezzo altissimo e quindi consideravamo giusto fare conoscere al grande pubblico questa vicenda. In un certo senso con questa fiction cade dopo quasi 40 anni un tabù».

Hai incontrato gli interpreti?
«Sì, e ho chiesto loro di raccontare mio padre come un uomo sorridente, innamorato della vita e della sua professione. Per questo ho apprezzato la scelta di Claudio Gioè per il ruolo: ha poco in comune con lui dal punto di vista fisico, ma ha quel bel sorriso che mi piace. Marco Bocci ha un ruolo più drammatico. L’ho visto in una scena, sul set, e mi ha fatto rivivere il dolore di Giuseppe».

L’altra pagina dolorosa.
«Quando mio padre morì, mio fratello era solo un ragazzino. Crescendo ha fatto il suo percorso di elaborazione, ha voluto approfondire, ha raccolto tutto, riletto le carte. A un certo punto è scattato come un processo d’identificazione. Indagare gli ha fatto del male, probabilmente le sue ferite mai rimarginate hanno ripreso a sanguinare. È stato lui, nel 1995, a chiedere la riapertura del caso. Grazie a Giuseppe i giudici hanno potuto ricostruire quel periodo attraverso gli articoli di mio padre. Quando nel 2002 è arrivato alla meta e ha restituito dignità a nostro padre,  era come se fosse stremato. Come se non avesse più motivo di combattere».

Perché parli di dignità restituita?
«Perché qualcuno aveva cercato di far passare mio padre per un incauto, uno che in fondo se l’era cercata. Un’accusa che a volte proveniva da quegli stessi colleghi che avrebbero dovuto chiedersi se non fossero stati loro ad essere eccessivamente... cauti».

Perché questa vicenda, a parte il bel libro di Francesca Barra «Il quarto comandamento», è stata così poco esplorata?
«Temo che non sia casuale. I libri sulla mafia erano un filone, ma omettevano la storia di mio padre. Si parlava sempre della guerra sferrata dai corleonesi partendo dal luglio 1979, dall’omicidio di Boris Giuliano, come se mio padre fosse stato un giornalista di serie B. Invece Mario Francese era il cronista di cronaca giudiziaria del Giornale di Sicilia, il più importante quotidiano dell’isola, ed è stato ammazzato per quello che aveva scritto, per quello che era in grado di scrivere e soprattutto per dare una lezione anche agli altri. Fu lui a scrivere, prima che lo rivelassero i pentiti, di una commissione di Cosa nostra e di una frattura tra i “viddani” (i contadini di Corleone, ndr) e la mafia tradizionale. Fu l’unico a intervistare Ninetta Bagarella (moglie di Riina e sorella dell’uomo che lo ucciderà, ndr) e il primo a parlare del caso di Peppino Impastato come di un omicidio. A scrivere degli appalti in mano a Cosa nostra, che da agricola diventava imprenditrice, e delle attività paravento riconducibili a Riina. E a parlare del “commercialista di Riina”, un professionista che riciclava il denaro della mafia». 

Il delitto dal punto di vista della mafia diede buoni frutti.
«Eccome! Ucciso Francese, i corleonesi sparirono dai radar. I giornali parlavano di una guerra di mafia senza analizzare e capire chi fosse stato a dichiararla e perché. Sapremo qualcosa solo nell’84 grazie al pentito Tommaso Buscetta, che racconterà i Corleonesi».

Cosa ricordi di quel 26 gennaio 1979?
«Tutto. Perfettamente. Avevo vent’anni e lavoravo da poco al Diario (un quotidiano di Palermo, ndr) come cronista di giudiziaria. Stavo tornando a casa dai miei per cena. Vidi un capannello di persone e mio fratello che mi veniva incontro dicendo che avevano ucciso un uomo. Ero convinto di dover raccontare il primo omicidio della mia carriera. Mi avvicinai a Boris Giuliano, capo della Mobile di Palermo, per chiedere dettagli, lui mi strinse il braccio e disse: “È tuo padre”. In quel momento il mondo si è capovolto. È franato tutto. Come un treno che deraglia. Ho avuto il compito di dirlo a mia madre, di informare i miei familiari. D’improvviso mi sono ritrovato da cronista di primo pelo a vittima di mafia. Capofamiglia senza essere preparato per il ruolo».

C’erano stati dei segnali?
«Lui sapeva benissimo di dover morire. Aveva ricevuto minacce, ma possedeva quella capacità di smontare tutto, non ci ha mai mostrato la paura. Diceva: “Io faccio il mio dovere, sono tranquillo. Non mi può succedere niente”».

Come è raccontata la mafia in tv?
«Le fiction sulla mafia non mi piacciono e ho difficoltà a vederle. Non do giudizi critici, ma credo che ci sia un tentativo di spettacolarizzare. Sono prodotti televisivi e capisco che debbano catturare l’attenzione, ma non mi piace quando gli uomini di Cosa nostra diventano protagonisti. Gli eroi veri sono quelli diventati tali loro malgrado. Uomini veri che hanno fatto quello che dovevano fare: andare avanti senza lasciarsi piegare dalla paura».

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