La storia del cantante è diventata un docufilm per Prime Video. Ci siamo fatti raccontare da lui com’è andata
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Il bambino Alessandro aveva un’idea ben chiara: voleva cantare. Ma non cantare tanto per cantare. Voleva imparare a farlo come si deve, per seguire la strada dove lo portavano i suoi sogni. Mamma Anna Frau oggi non teme di dire quel che pensò quando Alessandro glielo disse chiaro e tondo, aggiungendo che sarebbe andato “a lezione”: «Io non sapevo che ci fossero delle scuole di canto e invece lui se le cercava».
Tutto quello che è successo dopo è storia nota, l’abbiamo ascoltata (letteralmente) moltissimo: Alessandro Mahmoud, nato nella periferia estrema di Milano, è diventato Mahmood, e la sua voce e le sue canzoni accompagnano questi nostri ultimi anni, con tanto di doppia vittoria al Festival di Sanremo (nel 2019 con “Soldi” e nel 2022 con “Brividi”, in coppia con Blanco). Dal 15 novembre, su Prime Video, la storia nota e la storia “di prima” si fondono in “Mahmood”, docufilm fatto di momenti di successo ed emozioni familiari anche tenerissime. Sorrisi lo ha visto in anteprima e ne ha parlato sia con Mahmood sia con... Alessandro.
Avere le telecamere addosso sul palcoscenico è quasi normale. Che effetto fa, invece, quando ti seguono nei grandi raduni della famiglia materna sulla spiaggia di Orosei, sulla costa nord-orientale della Sardegna, dove Mahmood è sempre rimasto per tutti Alessandro?
«In verità è stato quasi come se le telecamere non ci fossero. Prima di arrivare a Orosei il team di Prime Video mi aveva seguito in tante tappe del tour, quindi ci siamo conosciuti bene e s’era già creato un clima “di famiglia” prima ancora di arrivare a Orosei, dove c’era tutta la mia famiglia. Perciò non ce ne siamo neanche accorti».
Nel film lei viene “accompagnato” da un alter ego disegnato. Le piace vedersi come un cartone animato?
«Io sono cresciuto guardando i cartoni animati, gli “anime” giapponesi. Il mondo dell’animazione, insomma, fa parte del mio mondo. È un lato di me a cui sono sempre collegato, e quindi è parte della mia storia e delle mie canzoni: pensi a “Inuyasha”, per dirne una… Inuyasha è uno dei personaggi a cui sono più affezionato, ma nel cuore porto sempre i Pokemon, e poi Dragon Ball, Ranma, Lamù…».
Tra i suoi personaggi preferiti, in quale trova una caratteristica che sente particolarmente sua?
«Forse quello che mi rappresenta di più è Shoto Todoroki, un personaggio della saga “My Hero Academia” che ha metà del corpo da cui lancia ghiaccio e metà da cui lancia fuoco. Io sono un po’ così, no? Un po’ ghiaccio e un po’ fuoco, un po’ pace dei sensi e un po’ esaurimento nervoso».
Un superpotere tutto suo è la voce: quando è uscito dai percorsi delle scuole di canto per trovare il suo stile tra rhythm’n’blues e vocalità “mediorientali”?
«Non è che un giorno l’ho imparato: è stato un passaggio lungo. Dall’inizio ho cambiato almeno cinque insegnanti di canto e progressivamente ho cominciato a cantare come volevo veramente. Adesso ce l’ho quasi fatta».
Ha un cantante di riferimento?
«Beh, Stevie Wonder! Del resto credo che ogni persona abbia sognato, almeno una volta nella vita, di cantare proprio come lui».
A un certo punto del docufilm lei riflette sui suoi inizi e ricorda che si chiedeva se quei tentativi (talvolta “vergognosi”, dice) l’avrebbero portata dove voleva andare. Credo che si possa dire di sì. Oggi, però, dove vorrebbe andare?
«Al manicomio! No, sto scherzando… Però è vero che non sono mai contento, il fatto è che appena raggiungo un obiettivo me ne do subito un altro, nuovo e magari più difficile. La mia vita non si ferma mai, è sempre un motore acceso. Sono molto felice, ma allo stesso tempo preoccupato, perché questo lavoro è fatto di ansie, di preoccupazioni, a volte di problemi. È un lavoro basato sulla musica: non è matematica. Però forse è anche per questo che ho scelto questa strada».
Quando finisce lo show, quanto tempo ci mette Mahmood a tornare Alessandro?
«Appena smetto di cantare! Anzi, non riesco a essere sempre Mahmood neanche sul palco, perché mi piace parlare con la gente. Io voglio sapere da dove vengono, voglio far loro delle domande, voglio leggere i loro cartelloni. Mi diverto anch’io sul palco! Diciamo che vado a momenti, insomma: è come se avessi una doppia personalità».
Un passaggio importante del racconto è l’esperienza a “X Factor” nel 2012. Lì dentro c’era tutto: speranza, delusione, gara, vittoria, sconfitta… Sono passati dieci anni: che cosa le ha insegnato “X Factor”?
«Tante cose. Era la prima volta su un palco veramente importante e penso che mi abbia aiutato cantare di fronte a qualcuno che mi avrebbe poi giudicato. Poi ho imparato a essere più a mio agio davanti a una telecamera. Cantare in televisione è tutt’altra cosa che farlo in concerto. È come se fossero due mestieri completamente diversi».
Gli album, le vittorie a Sanremo, l’Eurovision, il tour in Europa, ora il docufilm… Il prossimo passo quale sarà?
«Non lo so nemmeno io! Ci sto lavorando, piano piano, un passo alla volta: troverò nuove cose da dire, nuove strade. Adesso devo semplicemente non pensarci troppo, vivere alla giornata, vedere cosa succede. Alla fine la musica va di pari passo con la vita e quindi dipende da che cosa vivrò».