Gianfranco D’Angelo: «Dopo 50 anni di risate vorrei farvi piangere»

L’attore racconta a Sorrisi la sua carriera tra teatro, tv e cinema. E confessa che si toglierebbe uno sfizio...

Gianfranco D’Angelo è nato a Roma il 19 agosto 1936. Ora, dopo aver debuttato a Palestrina (Roma), è in tournée con lo spettacolo teatrale «Quattro donne e una canaglia»
9 Marzo 2017 alle 16:13

Nei camerini di un teatro. Non ci potrebbe essere luogo più adeguato per incontrare Gianfranco D’Angelo. È al palcoscenico, infatti, che si dedica con passione dopo una lunga e fortunata carriera televisiva e una cinquantina di film. In questi giorni gira l’Italia insieme con Marisa Laurito, Barbara Bouchet, Corinne Cléry e Paola Caruso con «Quattro donne e una canaglia».

Difficile lavorare con quattro donne?
«Le convivenze sono complicate in tutti i campi, ma fra noi c’è rispetto, educazione ed entusiasmo. In teatro se non si va d’accordo diventa un dramma».
Una vita faticosa.
«Sì, ma sono abituato. Negli ultimi 20 anni, smessa la tv, ho ricominciato e non mi sono mai più fermato. È dura, sei sempre in giro, fai 300 o 400 chilometri in un giorno, devi essere sempre in forma, ma io ci riesco. Ho ancora la voglia e la forza di volerlo fare. Alla faccia dei miei 80 anni».
50 anni di carriera. E ha cominciato dopo i 30.
«Prima ho lavorato. Vengo da una famiglia poverissima, ho perso i genitori a tre anni e sono cresciuto con gli zii. Oggi si parla di crisi, ma nel dopoguerra c’era la fame. Ho fatto tanti mestieri, ma ho amato il teatro fin da bambino. Ho anche lavorato dietro le quinte: macchinista, attrezzista...».
Inoltre ha fatto anche  l’impiegato alla Sip, la compagnia telefonica.
«Era un impiego sicuro, avevo già famiglia. Mi occupavo di recupero crediti, ma non sono un duro e non era semplice quando arrivava la gente e chiedeva la proroga sulla bolletta. Sapevo cosa vuol dire non avere i soldi».
Poi che cosa è cambiato?
«Alla sera recitavo in cabaret con i testi che mi ero fatto scrivere da Maurizio Costanzo, che all’epoca era un semplice giornalista. Mi chiamarono al “Puff” (storico cabaret romano, ndr) per sostituire Montesano che era andato a fare un varietà in tv. Lì Garinei e Giovannini mi proposero il musical “Alleluja brava gente”. Mi licenziai e da quel momento non mi sono più fermato: il teatro, la radio, il “Bagaglino”, i film e poi la tv. “La sberla”, nel ‘78, mi diede grande popolarità: la guardavano 19 milioni di persone».
Come avvenne il passaggio alla tv commerciale?
«Il regista Giancarlo Nicotra mi disse che a Milano c’era un imprenditore facoltoso che voleva investire e fare programmi. Studiammo “Drive in” con Enrico Vaime, Franco Mercuri e Antonio Ricci, e lo proponemmo a Berlusconi».
Un grande successo.
«Ma non fu affatto facile! La puntata zero non era piaciuta. Poi Berlusconi la testò su Italia 1 che non aveva ancora un palinsesto abbastanza ricco e funzionò. Ci chiese di fare altre due puntate. Alla terza avevamo già un milione di spettatori».
E lei divenne una colonna di Mediaset.
«Inizialmente, a differenza di Beruschi, non mi era stato fatto un contratto di esclusiva. C’ero rimasto male. Fu solo quando il mio numero come addestratore del cane Has Fidanken divenne popolare che ottenni un ricco contratto. Furono anni esaltanti. Era tutto diverso da Roma: moderno, vivo, ricco. Feci “Drive in”, “Striscia la notizia”, “Odiens” con la Cuccarini. Eravamo un bel gruppo, affiatato».
Perché andò via?
«Silvio, ci davamo del tu, mi amava. Mi chiedeva pareri sui programmi e mi offrì il palinsesto serale, ma quello non era il mio mestiere. Mi chiese anche di firmare un decennale, ma non me la sentii di legarmi per tutto quel tempo. Io dopo un poco mi stufo, voglio vedere il pubblico vero, non quello che fa gli applausi perché lo dice il direttore di studio».
Pentito?
«Ho rinunciato a tantissimi soldi, ma quando hai successo credi di poterti permettere tutto. Non pensi che possa finire. La gente ti tocca, ti fanno le foto, non percepisci più quella sensazione che tutto ha una durata. Invece arriva un altro e lo spettacolo va avanti. Ma non ho rimpianti. Ancora oggi la gente mi ferma e mi dice: “Sei un mito”. Ho guadagnato bene, avevo la Ferrari, la barca, la casa al mare, ho comprato case alle figlie. Un po’ li ho buttati producendo una cosa in teatro, capita! Non sono attaccato ai soldi».
È comico anche nella vita?
«Amo fare gli scherzi. La mia vittima preferita era Beruschi. Ha paura dei cani. Una sera, d’accordo con Ricci, lo chiusi a chiave in camerino con un cane. Caspita, come urlava!».
La sua occasione persa?
«Recitare un ruolo drammatico. Me lo proposero ma rifiutai, avevo paura di confondere il pubblico. Ora mi piacerebbe. Tanto».

Seguici