Gianni Mazza: «Tutto cominciò con un piano ”tarocco“»

L’estroverso Maestro di "Mezzogiorno in famiglia" racconta a Sorrisi le origini della sua lunga carriera

Gianni Mazza
17 Maggio 2019 alle 10:05

«Ho veramente avuto una grande fortuna. Non speravo tanto!». Il maestro Gianni Mazza, 74 anni, anima musicale di “Mezzogiorno in famiglia”, sintetizza così una carriera lunga più di 50 anni.

Direttore d’orchestra, compositore, produttore, tastierista, ha lavorato con tanti grandi dello spettacolo, da Nanni Loy a Corrado, da Renzo Arbore (che lo trasformò in personaggio televisivo) a Fabrizio Frizzi. Fino a Michele Guardì, regista di “Mezzogiorno in famiglia”, con cui lavora dai tempi di “Scommettiamo che...?”. In mezzo, colonne sonore, concerti, arrangiamenti, perfino una partecipazione al Festival di Sanremo.

Maestro, lei la fa facile, ma per avere una carriera come la sua ci vuole anche tanta bravura.
«Allora diciamo che sono stato un predestinato».

In che senso?
«Sono venuto al mondo in una casa in cui c’era un pianoforte e da quel “coso” non mi sono più separato».

Quella sì che è fortuna: nel 1944 non erano in tanti a potersi permettere un pianoforte.
«Sì, ma intendiamoci, un pianofortaccio italiano mascherato da tedesco. Un giorno col cacciavite ho rimosso la marca tedesca e sotto ce ne stava una italiana di ben altro prestigio... Quel pianoforte non teneva l’accordatura, andava accordato mezzo tono sotto, era una “chiavica”. Poi finalmente i miei mi hanno comprato un vero pianoforte tedesco».

E da lì è partito tutto.
«Ho cominciato da subito a formare gruppi. Conobbi un ispettore della Siae e la sera lo seguivo nei locali dove andava per fare i controlli. Lì ho conosciuto tutti: Don Marino Barreto Junior, Bruno Martino, Fred Bongusto, Peppino di Capri, il maestro Caruso che suonava il basso, Pippo Franco che faceva parte di un gruppo chiamato i “Pinguini”. Era simpatico, Pippo, e lo convinsi a farci venire a suonare nel night dove si esibiva lui. Ci fecero fare tre pezzi, poi mi girai e in fondo alla sala vidi mio padre e mia madre che col dito facevano “no”. Bloccando la mia carriera sul nascere».

Però non si arrese.
«No. Suonavo col mio gruppo, i “Freddie’s”, e facevo dei pezzi miei. Mi proposero a Teddy Reno che all’epoca organizzava il “Festival degli sconosciuti” di Ariccia. Nel 1965 partecipai come cantautore e andò bene, al punto che incisi il brano “Sarei felice”».

Che musica faceva?
«Andava di moda il cantautore emaciato, col pacchetto di sigarette Nazionali senza filtro sul pianoforte. Facevo musica molto pallosa. Ero tristissimo. E cantavo male. Incidemmo un disco, ma non successe niente. Così chiesi di rompere il contratto. Non volevo più cantare, volevo fare il direttore d’orchestra e mi misi a studiare».

Nel 1970 girava il mondo come tastierista di Little Tony. Come è successo?
«Un caso, come sempre. La nostra sala prove era il piano sopra la Durium, che era l’etichetta di Tony, e così si accorsero di noi. Con Tony mi sono divertito come un matto. Guidavo le sue macchine sportive. Mi sposai, comprai casa. Studiavo, suonavo e scrivevo per Tony. Avevamo un gruppo di 14 persone! Da lì non mi sono più fermato: sono entrato nel giro delle case discografiche. Come “turnista” lavoravo ai dischi di tutti, da Ornella Vanoni a Nada».

Sì, ma la tv?
«Quella è arrivata negli Anni 80. Avevo fatto qualche cosina con Nanni Loy e Arbore, ma senza apparire in video. Poi come arrangiatore mi capitò di lavorare con Corrado a “Carletto”, la sigla di “Fantastico 3”, e gli sono rimasto simpatico. Quando passò in Fininvest e il maestro Pregadio non poté seguirlo, in quanto interno Rai, mi chiamò per “Ciao gente”. Bei tempi! C’erano i soldi, i mezzi, le idee, l’entusiasmo e la disponibilità».

È stato Arbore, però, a fare di lei un personaggio.
«Fu un caso anche quello. Noi ci conoscevamo, eravamo... mezzi parenti, nel senso che eravamo fidanzati con due sorelle (Mariangela e Anna Melato, ndr). Ci si vedeva, si andava a mangiare la pizza tutti e quattro, ma non avevamo mai lavorato assieme. Poi lui e Mariangela si lasciarono e iniziò la nostra collaborazione. La musica era la sua materia, faceva il dj, ma non l’aveva mai portata in tv. Prima facemmo “Telepatria International”, poi “Cari amici vicini e lontani”. È lì che Renzo cominciò a cantare, aveva formato un gruppo che sarà poi il nucleo di “Quelli della notte”. Lavorai pure al suo disco d’esordio, “Ora o mai più ovvero cantautore da grande”.

Com’era lavorare con Arbore?
«Ci divertivamo, non ci ponevamo mai tanti problemi. Le idee nascevano a casa sua, quello che succedeva lì poi lo portavamo in tv. Gli amici erano quelli della televisione. Era tutto estemporaneo, non provavamo, il divertimento era spontaneo. Dopo la fine della trasmissione si continuava. Si andava a casa di qualcuno, oppure a mangiare, c’era chi “acchiappava” qualche figurante... insomma, c’era movimento».

“Quelli della notte” fu una bella scommessa.
«Eccome! Anche se all’epoca non ci rendemmo conto che stavamo facendo qualcosa di “storico”. Intanto andavamo in onda in diretta “fuori orario”, molto tardi. Prima a quell’ora tutti andavano a dormire, dopo di noi la Rai ha continuato. La prima settimana però il programma non andò bene, anzi. Fosse stato oggi ci avrebbero cancellato. Allora era tutto più ruspante, non c’erano tante regole. Pensi che la Rai non depositava neppure il marchio: “Quelli della notte” aveva il logo con la mezza luna, e qualcuno tentò di fregarselo, mentre “Indietro tutta” non aveva depositato il marchio del “Cacao Meravigliao” e anche in quel caso qualcuno tentò di appropriarsene».

Da allora con Arbore non ha più lavorato. Avete litigato?
«No, ci siamo allontanati per esigenze di lavoro. Renzo si è fatto il suo gruppo, adesso è lui stesso che fa il maestro. Il vero problema è che se lavoravi con Renzo dovevi lavorare solo con lui. Io invece avevo famiglia, non potevo fare a meno di accettare anche altri programmi».

È finito pure a Sanremo nel 1991 con “Il lazzo”. Non proprio indimenticabile, ammettiamolo...
«Era un provino mio, per divertirmi col gruppo durante le serate. Non so come, questo nastrino arrivò nelle mani della commissione. Esagerai spudoratamente, pieno della mia voglia di divertirmi e con la presunzione di sapere che la gente avrebbe capito. Invece non fu così. Il brano era volgare, pieno di doppi sensi, esagerato. Se avessi dimezzato il carico, sarebbe passato in finale».

Forse con la sue erre fu percepito come un clone di Arbore.
«In realtà Renzo non c’entrava niente, mi spiacerebbe addossargli i miei demeriti. Comunque non mi pento di niente. Dopo Sanremo mi offrirono “Scommettiamo che...” e così conobbi Michele Guardì. Gliel’ho detto: ho avuto fortuna».

L’uomo dei 100 pazzi gilet

Estrosi, colorati, pazzi, a volte improbabili, ma di certo mai banali. Sono i gilet che il maestro Mazza sfoggia in trasmissione, ormai una sorta di segno distintivo. «Tutta colpa di Renzo Abore. È stato lui a iniettarmi il virus» ci confida Mazza. «Da allora non mi sono più fermato. Ne ho un armadio pieno, più di un centinaio».

In molti, anche fra i lettori che ci scrivono, si chiedono dove sia possibile trovarli. «Oggi li compro in giro per il mondo. Prima me li faceva un’azienda italiana che non esiste più. Alcuni li trovo in un mercatino dell’usato di Porta Pia, vicino a San Pietro».

Attenzione, però, se volete imitare il maestro sappiate che il gilet ha regole ferree: va portato aderente al corpo, sovrapponendosi in parte ai pantaloni, con le spalle ben piatte. Come per la giacca, va indossato con l’ultimo bottone slacciato, a meno che non sia parte di un abito da cerimonia. Mai con la cintura.

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