Sono star di Internet ma ora vanno alla conquista della tv, da "Don Matteo" a Massimo Ranieri, da Sanremo a Netflix. Questi ragazzi napoletani hanno trasformato la passione per i video divertenti in una professione. E qui ci raccontano la loro vera storia

di Ciro Priello (di The Jackal)
«Ciro, vuoi sapere una cosa? La vicina di casa mi ha detto che ti ha visto nel nuovo programma di Massimo Ranieri: “Qui e adesso”, quello su Raitre. Io le ho risposto che sicuramente era uno che ti somigliava».
Mi presento: sono Ciro Priello di The Jackal. E la frase che avete appena letto è l’esordio di una conversazione-tipo con mia madre.
«Mamma: certo che ero io. C’era pure Fabio. Quello con la barba».
«Ma veramente? E che ne sapevo io, scusa. Tu non mi dici mai niente. Io pensavo facessi i filmini con il cellulare, quelli che poi mettete sul computer».
Lo confesso: spiegare a mia madre cosa faccio è forse la parte più difficile di questo lavoro. Facile quando dici “medico” o “avvocato”. Un po’ meno quando devi parlare di cosa si occupa una società di videoproduzioni nell’era del digitale. Su una cosa, però, mia madre non ha torto: i filmini. Qui a Napoli chiamiamo così quei video amatoriali girati per gioco, fra un gruppo di amici o durante le vacanze. Ecco, è cominciato tutto così. Prima dei set professionali, della tv, di Sanremo, di “X Factor”; prima che nel 2011 creassimo una società col gruppo Ciaopeople.
Prima di tutto questo, c’erano i banchi di una scuola media a Melito, profonda provincia nord di Napoli.
«Mamma, te li ricordi Simone e Francesco?».
«Ciro, guarda che mica sono scema! Siete cresciuti assieme».
Ecco. Allora ti ricordi anche del fatto che Francesco stava sempre con una telecamera in mano. E che già all’epoca ci divertivamo a realizzare le parodie dei nostri film preferiti. Crescendo, ci siamo chiesti: perché non dare un nome a quello che facciamo? The Jackal nasce così: con l’idea, forse folle, che un gruppo di amici possa diventare anche un gruppo di colleghi; che i film che “sciacallavamo” per parodiarli (da qui il nome) ci portassero a creare un lavoro.
«Sì, ma quale lavoro? C’è qualcuno che vi paga per fare i video su Internet?».
Facciamo così: pensa a Internet come a un’enorme tv, dove i canali e i programmi sono potenzialmente infiniti. E dove proprio per questo motivo, devi guadagnarti uno spazio. Nel nostro caso: realizzando video che siano seguiti da un numero sempre più grande di persone. Oggi abbiamo quasi un milione di iscritti su YouTube, due milioni di fan su Facebook e più di un milione di follower su Instagram. Quella che in tv chiameresti “audience”. Tornando all’esempio di prima: per quale motivo un programma televisivo cerca questa audience?
«Ciro, ma è un’interrogazione? Se mi vuoi dire le cose, dimmele a basta».
Ok, d’accordo. È che quando posso spiegare io una cosa a mia mamma, e non viceversa, mi esalto. Comunque: cerca di fare audience per attirare investimenti pubblicitari. Noi realizziamo, principalmente, contenuti web per aziende e prodotti, costruendoci delle storie intorno. Abbiamo girato un film uscito al cinema, “Addio fottuti musi verdi”; ora stiamo realizzando una serie per Netflix che sarà trasmessa in Italia e in altri Paesi del mondo di cui non riesco nemmeno a pronunciare il nome. Insomma...
«Quindi non è solamente un gioco che fai con gli amici tuoi?».
Diciamo che quel gioco diventa un lavoro quando ti rendi conto che promuovere un marchio girando un video, farlo assieme a persone che condividono la tua voglia di raccontare storie, significa strutturare una professione. Infatti adesso ci sono anche altre persone che lavorano con noi. Siamo in tanti: Alfredo, che hai conosciuto già ai tempi del liceo; Fabio, Fru, Claudia, Aurora…
«Fermati! Quanti siete diventati?».
Parecchi. Quelli che vedi davanti alla telecamera non sono i soli: ci sono gli autori, i tecnici, il personale amministrativo. E poi i project manager, gli account, i… ok, non guardarmi con quella faccia! Una società di videoproduzioni è un’impresa a tutti gli effetti. Senza il lavoro di tutte queste persone non saremmo mai arrivati a realizzare “Operazione Sanremo”, quando facemmo dire “gnigni” a Pierfrancesco Favino in diretta mondiale, a girare un film o le campagne sociali per Action Aid. Il fatto che ci divertiamo a farlo non significa che non sia un lavoro. Anzi.
Sono fiero di me: una spiegazione impeccabile. Guardo mia mamma negli occhi, con espressione soddisfatta stampata sul volto. Mia mamma annuisce, mi guarda a sua volta e mi domanda: «Quindi alla vicina di casa, se mi chiede che lavoro fai, che le devo rispondere?».